Il problema del rifornimento energetico ha due aspetti ben distinti tra loro: infatti “esistono profonde differenze tra il settore petrolifero e quello del gas” 1. Mentre infatti il mercato del petrolio è globale, e quindi i prezzi variano secondo la legge della domanda e dell’offerta, quello del gas – distribuito in prevalenza attraverso gasdotti, dato il numero limitato di impianti di liquefazione nei paesi estrattori e quindi di navi trasporto LPG 2 – si basa su di una serie di mercati regionali, quindi soggetti a monopoli ed a operazioni di cartello.
Di conseguenza, nel parlare delle azioni e progetti della NATO nel campo della “Sicurezza Energetica”, si parlerà del gas solo di sfuggita, essendo questo un settore nel quale un intervento militare non è prevedibile, a parte la protezione delle relativamente poche navi-trasporto LPG e che quindi entrerà nel discorso solo nell’ambito di eventuali trattative politiche.
Parlare di “Sicurezza Energetica” significa, in realtà, affrontare un campo piuttosto vasto e multiforme, dato che il termine si riferisce all’intero flusso (o ciclo) del combustibile, dal pozzo di estrazione fino al terminale marittimo d’imbarco, dalla sicurezza delle rotte percorse dalle navi che trasportano il combustibile (specialmente i passaggi obbligati) fino a quella dei porti di arrivo; come vedremo, alcuni paesi alleati includono in questo termine anche le raffinerie, e persino le vie di trasferimento interne fino alla “Pompa di Benzina”.
Le preoccupazioni occidentali sulla necessità di ottenere un sufficiente livello di sicurezza dei loro approvvigionamenti energetici non sono nuove, in quanto sorsero in conseguenza del passaggio dal carbone al petrolio come fonte di energia primaria delle macchine. La carenza in Europa di questo prodotto, ed il fatto ancor più grave che i paesi produttori si trovino in gran parte nelle zone del mondo tra le più instabili ne sono la causa principale.
Quindi i paesi dell’occidente dovettero occuparsi della loro sicurezza energetica fin dal 1916 (Accordo SYKES-PICOT), spesso intervenendo in forze nei territori di estrazione, oppure forzando gli equilibri interni dei paesi interessati, non sempre con successo, e creando talora delle situazioni di latente tensione avvertibili ancor oggi.
Fino ad anni relativamente recenti, le nazioni occidentali avevano seguito le loro politiche di sicurezza energetica singolarmente, spesso in concorrenza tra loro, ma il loro progressivo indebolimento, successivo alla Seconda Guerra mondiale, le ha gradualmente convinte a ricercare sinergie e ricorrere ad azioni collettive.
L’Operazione multinazionale EARNEST WILL, avviata durante il conflitto tra Iran e Iraq negli anni 1980, fu il primo esempio della volontà di proteggere in modo coordinato e sinergico il flusso marittimo di combustibili, a partire da quando, nel 1984, le due nazioni belligeranti iniziarono ad attaccare le petroliere nel Golfo Persico; le attività occidentali compresero la scorta diretta dei mercantili delle rispettive nazioni, il contrasto alle navi iraniane che stendevano campi minati lungo le rotte e l’assalto alle piattaforme petrolifere occupate dagli Iraniani come basi di attacco alturiere.
Poiché gran parte di queste navi battevano bandiere-ombra, sia l’Unione Sovietica sia gli USA condizionarono l’opera di protezione al loro ritorno sotto bandiera nazionale (reflagging); gli armatori dovettero quindi fare buon viso a cattivo gioco, e accettare questa clausola, che implicava l’adeguamento agli standard di sicurezza nazionali, nonché un trattamento economico e previdenziale degli equipaggi in linea con le leggi dei rispettivi paesi.
Con il successivo rifiorire del fenomeno, e con la notevole espansione delle bandiere-ombra in questi anni, il problema si è posto di nuovo, dato che le azioni di protezione implicano costi elevati; di conseguenza, oggi ci si interroga in sede NATO su “chi dovrebbe pagare per conto dell’Alleanza, se si dovessero proteggere mezzi di compagnie indipendenti” 3, vale a dire quelle con bandiera-ombra.
Non a caso il dubbio è sorto anche in sede UE, in occasione della missione ATALANTA, per il contenimento della pirateria nel Corno d’Africa, e la risposta è stato il ricorso alla “Protezione Indiretta” mediante il pattugliamento dei tratti di mare attraversati dai mercantili (sistema delle “Rotte Pattugliate”), malgrado la sua efficacia limitata, ben nota fin dai tempi della Prima Guerra mondiale.
L’origine dell’interesse diretto della NATO per la sicurezza energetica risale al febbraio 2006, quando i suoi governi “discussero un ventaglio di possibili azioni nel caso di una futura interruzione dei rifornimenti di petrolio a causa di azioni militari. Alcuni Stati membri ventilarono la possibilità di proteggere il traffico di petroliere e le piattaforme di estrazione in periodi di conflitto e di usare i satelliti per monitorare gli sviluppi nelle aree in cui le risorse energetiche diventassero preda di minacce” 4. A queste discussioni seguì il vertice di Riga dello stesso anno, nel quale fu discussa la necessità della “stesura di un ruolo coerente e adatto per l’Alleanza” 5.
Il Segretario Generale NATO, Jap DE HOOP SCHEFFER, era stato pronto a cogliere quel momento di preoccupazione, per continuare nella sua linea politica tendente a incrementare la rilevanza della NATO per i paesi membri: la sua convinzione infatti era che l’Alleanza non potesse essere solo il “Gendarme dell’Occidente”, pronto a svolgere missioni di stabilizzazione in giro per il mondo ovunque gli interessi dei paesi membri fossero toccati, ma essa dovesse anche svolgere altri ruoli non strettamente militari, al fine di garantire un grado di sicurezza elevato agli Alleati.
Fu quindi preparato un rapporto, intitolato “Il Ruolo della NATO nella Sicurezza Energetica”; la sua compilazione non fu semplice, in quanto vennero fuori le differenze di approccio tra i membri: da una parte il gruppo dei paesi più determinato a coinvolgere l’Alleanza nel problema comprendeva la Polonia ed i Paesi Baltici, i quali volevano che la NATO si facesse carico vuoi di tenere a freno la Russia, vuoi della protezione delle infrastrutture vitali (i terminali petroliferi marittimi e gli oleodotti) contro possibili sabotaggi.
Infatti, la “Polonia importa infatti due terzi dei suoi consumi di gas dalla Russia e il 97% del petrolio” 6, mentre la “Lituania e la Lettonia dipendono dalla Russia al 100%” 7; gli altri paesi temevano invece una sovrapposizione di compiti con l’Unione Europea, anch’essa impegnata nel settore, sia sul versante della Commissione sia su quello del Segretariato (PESD, l’attuale CSDP).
Questi Stati, quindi, volevano definire bene il contributo della NATO, limitandolo ai settori di specifica e riconosciuta esperienza, come la protezione dei traffici marittimi in situazioni di crisi: nessuno, quindi, voleva l’ampliamento di compiti dell’Alleanza, malgrado l’intensa opera di convinzione svolta dal Segretario Generale: il timore era infatti che la NATO si trovasse a “essere trascinata in altre questioni e problemi ai quali essa fosse in grado di contribuire poco e dove (invece) il suo contributo potesse aggravare la situazione” 8.
Il compromesso raggiunto fu appunto molto vicino alla linea di questi ultimi: al Vertice di Bucarest, nell’aprile 2008 “I Leader della NATO riconobbero che l’interruzione del flusso di risorse vitali potrebbe colpire gli interessi di sicurezza dell’Alleanza” 9 e presero nota del rapporto, che raccomandava cinque aree-chiave in cui la NATO avrebbe potuto portare un valore aggiunto:
- Raccolta, analisi e diffusione di informazioni e di intelligence;
- Proiettare stabilità (mediante operazioni sul campo);
- Incrementare la cooperazione regionale e internazionale;
- Supportare la gestione delle conseguenze (di un eventuale attentato terroristico o di un disastro naturale);
- Supportare la protezione delle infrastrutture critiche.
Si erano spenti da poco gli echi del vertice quando, nell’inverno del 2009, il contenzioso tra Ucraina e Russia portò l’Europa alle soglie di una crisi che fu considerata simile a quella del 1973; una differenza però esisteva, dato che quella del 1973 era la conseguenza di una pressione (o rappresaglia?) dei paesi OPEC contro la politica europea favorevole a Israele, mentre la scarsità di gas del 2009 derivava dalla una lotta accanita tra i due paesi dell’Est, di cui gli Europei erano ostaggio.
Malgrado questo inverno di timori, al successivo vertice del 60° anniversario fu emessa una “Dichiarazione sulla Sicurezza dell’Alleanza”, nel cui testo – dopo aver elencato le minacce crescenti – si affermava: “altre sfide, come la sicurezza energetica, il cambiamento del clima, come pure l’instabilità emanante dagli Stati fragili e falliti potrebbe anche avere un impatto negativo sulla sicurezza alleata e internazionale”[10] : i risultati positivi ottenuti nell’opera di mediazione tra la Russia e l’Ucraina, condotta vuoi dalla NATO, vuoi dall’UE, avevano infatti ridimensionato in pochi mesi la preoccupazione dei paesi occidentali, e quindi l’argomento era stato “retrocesso” dal livello di minaccia a quello di una tra le altre sfide.
In merito a questo interessamento a corrente alternata, da parte delle nazioni NATO verso il problema della sicurezza energetica, va citata l’osservazione di uno studio, secondo il quale “ora è estate (e) le dispute sul gas importano meno, anche data la lunga lista di altre priorità”[11], mentre in inverno la sola minaccia di trovarci vuoi senza riscaldamento in casa, vuoi con le industrie ferme per mancanza di energia, riporta la questione sulle prime pagine dei giornali.
Malgrado l’interesse saltuario dei paesi membri, la NATO sta già operando, sia pure indirettamente, per fornire quel valore aggiunto che gli viene richiesto, senza quindi entrare nell’ambito di competenze altrui, come ad esempio l’UE, in linea con le raccomandazioni del vertice di Bucarest.
Anzitutto, sono in atto operazioni di controllo delle aree marittime ad alto rischio, anzitutto nel Mediterraneo, nel quale l’operazione ACTIVE ENDEAVOUR – in funzione anti-terroristica – assicura fin dall’ottobre 2001 la stabilità del bacino. La sua azione di controllo dei mercantili e di monitoraggio dei flussi di traffico, confinata all’inizio al solo Mediterraneo Orientale ed estesa quindi a tutto il bacino, fino a includere la scorta diretta attraverso lo Stretto di Gibilterra durante alcuni periodi di minaccia terroristica, ha garantito un livello di sicurezza assoluto.
Più di recente, le operazioni ALLIED PROVIDER e OCEAN SHIELD nelle acque del Corno d’Africa hanno visto forze navali NATO partecipare al contrasto della pirateria[12], permettendo al traffico marittimo internazionale l’attraversamento del Golfo di Aden senza gravi problemi, anche se attacchi a petroliere si sono verificati.
Il caso più notevole è stato il sequestro della “MV Sirius Star, una super-petroliera che trasporta circa il 25% della produzione giornaliera dell’Arabia Saudita”[13], ma anche altre navi similari, come la Abdul Kalam Azad e la Kriti Episcopi, sono state prese di mira dai pirati, e sono state salvate dall’intervento immediato delle navi da guerra.
Il terzo contributo della NATO alla sicurezza energetica consiste nell’avvio del progetto di MARITIME SITUATIONAL AWARENESS, una rete di scambio informazioni in corso di sviluppo da alcuni anni, su proposta del Comando Strategico della Trasformazione (SAC-T), per monitorare tutte le attività marittime e intervenire prontamente in caso di situazioni anomale.
La rete sarà basata sull’integrazione dei dati forniti dalle unità militari in navigazione, di quelli provenienti da fonti informative, ai quali si aggiungono le risposte automatiche che il sistema AIS[14], impiantato su tutti i mercantili, fornisce via radio. Queste trasmissioni automatiche vengono captate da stazioni satellitari o terrestri e quindi potranno essere inviate ad appositi centri di controllo, posti nei comandi NATO.
Un altro contributo viene fornito dal progetto scientifico “Sahara Trade Winds to Hydrogen” finanziato dal programma “SCIENCE for PEACE and SECURITY” dell’Alleanza, nell’ambito del Dialogo Mediterraneo – un partenariato con i paesi del Nord Africa – che prevede lo sviluppo di “tecnologie dell’idrogeno per immagazzinare e trasportare l’energia rinnovabile (ricavata) dalle turbine a vento”[15].
Come si può notare, qualcosa è stato fatto, ma le possibilità per la NATO di svolgere un ruolo ancora più incisivo esistono e sono notevoli. In primo luogo vi sono alcuni paesi produttori, membri della NATO ma che non fanno parte dell’UE – USA, Canada e Norvegia. Quest’ultima, in particolare, si affaccia all’Oceano Artico, ha concluso un accordo con la Russia per la suddivisione della piattaforma continentale, e quindi potrà fornire energia in grande quantità.
Tutti questi paesi potrebbero quindi aiutare gli alleati europei a diversificare le acquisizioni, specie in tempo di crisi; la Turchia, poi, che tra poco sarà uno dei principali paesi di transito di oleodotti, potrà rendere più o meno agevoli le forniture di gas all’Europa, ed eventuali accordi sponsorizzati dalla NATO sarebbero più agevoli, data la tensione esistente tra Ankara e l’UE.
In secondo luogo è possibile prevedere un maggior impegno NATO nelle aree di produzione più instabili, come ad esempio nel Golfo di Guinea, per rendere le attività più sicure. Naturalmente tutto questo dipenderebbe da una collaborazione con i paesi dell’area, comunque vadano le cose, ma la possibilità esiste e missioni di formazione delle forze navali di quei paesi potrebbero aprire una porta verso una presenza NATO nell’area.
In terzo luogo, non bisogna dimenticare che i vari partenariati includono numerosi paesi produttori, vuoi dell’Asia Centrale (Partnership for Peace – PfP), vuoi nel Golfo Persico (Istanbul Cooperation Initiative – ICI). Appare evidente che la NATO possa diventare un tavolo di incontri e di accordi, in caso di situazioni di crisi energetica, sia fornendo la protezione alle infrastrutture critiche – una questione già sollevata da loro – sia agendo da mediatore per regolarizzare le forniture al nostro continente.
Si tratterebbe quindi, nel primo e nel terzo caso, di un ruolo politico, né più né meno di quanto il Segretario Generale DE HOOP SCHEFFER auspicava, ancora tutto da definire, ma potenzialmente rilevante.
Va detto però che creare un tavolo di discussione, nel quale siedano sia i paesi produttori sia la nazioni acquirenti, imponga una trattativa a largo spettro; tra i problemi sul tappeto vi è il desiderio di alcuni paesi produttori, specie i membri dell’ICI, di ottenere dalla NATO una garanzia di protezione – simile all’Articolo 5 della NATO sulla difesa collettiva – un impegno che finora nessun Alleato ha voluto assumere.
Peraltro, in questo momento di calma sul fronte energetico sono pochi a spingere in questo senso. In questa direzione va letta la recente dichiarazione dell’Ammiraglio DI PAOLA, Presidente del Comitato Militare NATO, il quale ha detto: “La sicurezza energetica è stata sollevata da più parti come uno dei temi che interessano gli alleati. Certo, per tutti i paesi la sicurezza energetica è un tema centrale che, infatti, è all’attenzione della NATO, ma si deve ancora ragionare e lavorare su quale ruolo può avere l’alleanza. Ci sono compiti come la protezione delle infrastrutture critiche e la protezione degli spazi comuni nei quali transita l’energia, come le rotte marittime. Assicurare la sicurezza di queste infrastrutture e spazi contribuisce direttamente alla sicurezza energetica. Ci sono poi modi indiretti di contribuire, quali ad esempio la creazione di un clima positivo tra paesi produttori, paesi di transito e paesi consumatori di energia, tramite la cooperazione politico-militare: se la NATO crea un clima migliore con la Russia, riduce indirettamente i rischi per la sicurezza energetica. Invece sullo sviluppo di fonti alternative di energia, sulla diversificazione delle fonti, o su altre questioni legate alla sicurezza energetica, la Nato non ha nulla da dire o da fare”[16].
Non ci potrebbe essere una sintesi migliore dello stato degli atti su questo problema, all’interno della NATO. La speranza è che il nuovo concetto strategico dell’Alleanza, che sarà sottoposto ai Capi di Stato e di Governo il prossimo 19 novembre a Lisbona non trascuri la questione, relegandola in fondo al documento, come è avvenuto al vertice di Strasburgo-Kehl.
[1] P. SCARONI. Energy Security and Italian Foreign Policy: the European Perspective. Discorso del 13 febbraio 2007 alla Farnesina.
[2] LPG: Liquid Propane Gas, o Gas propano Liquido in Italiano.
[3]A. MONAGHAN. NATO and Energy Security after the Strasburg-Kehl Summit. NATO Defence College, giugno 2009, pag. 4.
[4] CRS Report to Congress. NATO and Energy Security. 15 agosto 2007, pag. 5.
[5] A. MONAGHAN. Op. cit., pag. 2.
[6] CRS Report to Congress, pag. 2.
[7] P. SCARONI. Op. cit.
[8] Ibid.
[9] Vds. Sito www.nato.int/cps/en/natolive/topics_49208.htm aggiornato al 27 ottobre 2010.
[10] Vds. Sito www.nato.int/cps/en/. . . /news_52838.htm del 4 aprile 2009.
[11] A. MONAGHAN. Op. cit. pag. 5.
[12] L’UE svolge nelle stesse acque l’operazione ATALANTA.
[13] A. MONAGHAN. Op. cit. pag. 3.
[14] Automatic Identification System, o Sistema Automatico di Identificazione, adottato dall’International Maritime Bureau per fini di anticollisione, ma utilizzato anche per il controllo di situazione nei mari del mondo.
[15] Vds, sito www.nato.int/cps/en/natolive/topics_49208.htm
[16] AFFARI INTERNAZIONALI. Intervista all’Amm. Di Paola (CMC) del 28 ottobre 2010.