Dallo sviluppo delle capacità al Pooling & Sharing

indexPer comprendere la “raison d’être” di una nuova entità, qual è quella europea di sicurezza e difesa, è necessario anzitutto ricordare le circostanze che ne hanno causato l’origine e che ne segnano il carattere a lungo. La nascita della Politica Europea di Sicurezza e Difesa, infatti, si può far risalire allo scoppio della guerra civile in Jugoslavia del 1991.

Di fronte a tale dramma, l’UE cercò di superare la sua incertezza decisionale, dovuta alle divergenze tra gli Stati membri, senza riuscirvi. Questo aspetto fu evidenziato dai media a un punto tale da oscurare l’altro problema in cui si venne a trovare l’UE. L’Unione infatti dovette far fronte al parziale disimpegno degli USA che, estenuati dalla Operazione Desert Storm – la prima guerra del Golfo – stavano riducendo le loro forze in Europa, e quindi non erano in grado di impegnarsi in modo significativo per un contenimento della crisi fin dal suo inizio, a differenza di quanto avevano fatto fino ad allora.  

La PESD: una soluzione obbligata

A dire il vero, Washington, un anno dopo, iniziò a dedicare forze alla soluzione della crisi, ma ormai la leadership americana aveva subìto una ferita grave, essendosi scatenata, come avviene di solito in questi casi, una specie di “reazione a catena”, che si materializzò in tre fenomeni, piuttosto tipici.

Anzitutto, l’UE, pur di fare qualcosa, delegò l’unica azione politicamente possibile – l’embargo in Adriatico, indetto dall’ONU – alla UEO, convincendola, contrariamente a quanto scritto nell’atto costitutivo, a mettersi in concorrenza con la NATO, rinunciando quindi a fare da ponte tra l’Alleanza e l’Europa; però anche la UEO dovette ben presto ammainare la sua bandiera e mettere le proprie scarse forze navali agli ordini dell’Alleanza. La perdita di prestigio dell’UEO rese evidente la sua insufficienza a fronte di crisi maggiori.

Il secondo fenomeno fu che il pur parziale ritiro USA dall’Europa fece scoprire agli Europei la “supplementarietà” delle loro forze rispetto a quelle degli alleati Americani. Non era una novità, ma gli Europei l’avevano ignorata a lungo; come ben descritto dall’allora Senatore J. F. Kennedy, la NATO era infatti partita fin dall’inizio “dal presupposto di poter creare un’alleanza delle forze di terra dell’Europa occidentale, sufficiente a contenere ogni operazione diversiva che i comunisti intraprendessero per saggiare la volontà di resistenza dell’Occidente[1]. In breve, per decenni gli Europei avevano preso l’impegno di concentrare le risorse per la difesa nella sola dimensione aero-terrestre, per cui non potevano far nulla senza mettersi agli ordini degli USA, le cui capacità in campo aero-marittimo non avevano corrispondenza da noi.

 Infine, l’UE dovette prendere atto che, di fronte al disimpegno USA, si creava una situazione pericolosa, che non poteva essere accettata, e le conseguenze si videro al vertice di Maastricht del 7 febbraio 1992. Come osservò il Ministro della Difesa tedesco Stoltenberg, “un ordine di sicurezza europeo non poteva consistere in un vuoto di potenza”[2]. Con tale dichiarazione, che riecheggiava quanto deciso pochi mesi prima al vertice la strada sembrava spianata per la creazione di una struttura di sicurezza europea, all’interno dell’UE.

Il trattato approvato a quel vertice prevedeva una struttura UE a tre pilastri, il primo dei quali era costituito dall’accorpamento della CEE, della CECA e della CEEA tra loro, sotto l’egida della Commissione. A questo, se ne aggiungevano due nuovi, uno denominato “Politica Europea di Sicurezza Comune” (PESC), destinato ad assorbire col tempo l’UEO, e l’altro riguardante gli Affari Interni e la Giustizia. La data per l’attuazione di questa riforma fu fissata al 1999, segno non tanto delle divergenze di vedute- che pure erano notevoli –  quanto del fatto che riconfigurare ogni strumento militare e di sicurezza per adeguarlo a una situazione radicalmente nuova è un’attività che richiede forti spese e decenni di lavoro!

Benché la nuova struttura risentisse negativamente della scarsa predisposizione dei pilastri a comunicare e collaborare tra loro, essa era comunque un passo avanti nella direzione di creare delle capacità di difesa e sicurezza europee al di fuori di quanto richiesto dalla NATO. Oltretutto, dato che il ritiro delle forze USA dall’Europa continuò negli anni successivi, fu confermata l’urgenza per gli Europei di provvedere alla propria sicurezza e difesa, costituendo un complesso di forze “complementari” rispetto a quelle dell’Alleanza.

Per superare le resistenze di Londra, che temeva un’accelerazione del processo federativo europeo, ci volle il vertice franco-britannico di Saint Malo del 3-4 dicembre 1998. Fu così possibile dare il via libera alla creazione, nell’ambito della PESC, di una nuova struttura, denominata “Politica Europea di Difesa Comune” (PESD), che fu sanzionata dal Consiglio Europeo di Colonia, il 3-4 giugno 1999, proprio alla scadenza fissata a suo tempo. Inutile dire che la nuova struttura, sotto l’energica direzione del suo primo Alto Rappresentante, Xavier Solana, ha dovuto costruire, partendo da zero, un sistema di difesa e sicurezza europeo in sostituzione di quello UEO che, fino ad allora, era stato incentrato sulla NATO, e quindi sulle forze USA.

Al di là del bisogno di affermarsi, mediante una serie di pur limitate operazioni sul campo, per la PESD si presentò subito la sfida dello sviluppo delle capacità. Senza un loro insieme omogeneo, infatti, non sarebbe stato possibile per l’UE compiere operazioni autonome.

Giova ricordare che, quando si parla di acquisire una capacità, si intende l’acquisizione non solo dei mezzi necessari, ma anche di tutto ciò che consenta di conseguire un risultato. In ogni capacità, quindi, oltre ai cosiddetti “pezzi di ferro”, sono comprese le procedure, le reti, l’addestramento, e la gestione dei sistemi, senza i quali i mezzi sono praticamente inefficaci.

Prima di procedere oltre, un’altra considerazione va fatta: disporre di un complesso armonico di capacità non significa avere un potere illimitato. In sintesi, una cosa è stabilizzare un paese come il Liechtenstein e un’altra è fare lo stesso con la Russia. La dimensione delle operazioni da fare dipende quindi dai numeri disponibili, che dovrebbero – almeno in teoria – corrispondere con quelli necessari, determinati mediante un esercizio che alla NATO viene chiamato di “Pianificazione delle Forze”, mentre in Europa è conosciuto come “Headline Goals”. In definitiva, le due organizzazioni sperano di raggiungere i numeri necessari mediante la somma dei contributi di forze da parte degli Stati membri. 

L’Agenzia Europea di Difesa e lo sviluppo delle capacità

Il motivo ispiratore della costituzione dell’Agenzia Europea di Difesa, l’EDA, creata il 12 luglio 2004, fu appunto quello di sviluppare le capacità di sicurezza e difesa essenziali per gli Stati Membri.

È interessante riportare quanto prevede il Trattato di Lisbona, all’articolo 42, su tale Ente: “Gli Stati membri s’impegnano a migliorare progressivamente le loro capacità militari. L’Agenzia nel settore dello sviluppo delle capacità di difesa, della ricerca, dell’acquisizione e degli armamenti (in appresso denominata «Agenzia europea per la difesa») individua le esigenze operative, promuove misure per rispondere a queste, contribuisce a individuare e, se del caso, mettere in atto qualsiasi misura utile a rafforzare la base industriale e tecnologica del settore della difesa, partecipa alla definizione di una politica europea delle capacità e degli armamenti, e assiste il Consiglio nella valutazione del miglioramento delle capacità militari”[3].

Retta da un “Chief Executive” prima britannico, poi tedesco e oggi francese, l’Agenzia si è ritrovata spesso a dover vincere la diffidenza degli Stati Membri, che in sede di Consiglio le hanno spesso negato i fondi da lei richiesti, al di là di quanto necessario per il funzionamento ordinario (stipendi, manutenzioni, esercizio); infatti, la linea che è sempre prevalsa in Consiglio è stata quella di lasciare agli Stati partecipanti a ogni singolo progetto l’onere di finanziare gli studi e gli sviluppi relativi.

Il timore di molti paesi, infatti, era che l’Agenzia ricevesse un “assegno in bianco”, pagato da ognuno di loro, finendo poi per tenere conto solo delle esigenze degli “azionisti di maggioranza”, i cui interessi essenziali non erano sempre coincidenti con quelli degli altri.

Questa imposizione, che peraltro riecheggiava quanto sempre praticato dalla NATO in ambito Conferenza dei Direttori Generali degli Armamenti, fu mal digerita all’inizio dal primo “Chief Executive”. Egli infatti la riteneva un vero e proprio boicottaggio, in quanto impediva allo staff dell’Agenzia di condurre autonomamente almeno le fasi iniziali dei progetti che la dirigenza europea intendeva realizzare, chiedendo un semplice nulla osta agli Stati Membri, sulla base del periodico esercizio di pianificazione delle forze (i cosiddetti “Headline Goals”).

In sintesi, anziché un approccio “Top-Down”, con la leadership europea che avrebbe deciso i progetti di sviluppo, per poi spingere le Nazioni ad acquisire i mezzi risultanti, l’EDA ha dovuto praticare, sia pure inizialmente contro voglia, un approccio “Bottom-Up”, con le Nazioni che avrebbero deciso come costruire il loro strumento di difesa e sicurezza, e quindi incaricato l’EDA di sviluppare i mezzi/capacità necessari, sotto la loro supervisione. Il “Capability Development Plan” rispecchia questo rapporto, e costituisce altresì il periodico rendiconto dell’Agenzia alle nazioni.

In realtà, questa decisione si è dimostrata la chiave di volta del crescente successo dell’Agenzia: il suo personale si è dovuto infatti impegnare per capire quali capacità le Nazioni volessero maggiormente, tanto da essere disposte a finanziarne lo sviluppo e poi ad acquisire i prodotti di tale sforzo: basta oggi scorrere la lista dei progetti presenti sul sito ufficiale dell’EDA per vedere che il progresso è costante, anno dopo anno, anche se  ancora troppo lento rispetto alle esigenze.

Il Pooling and Sharing

Negli ultimi anni, però, la situazione economica dei paesi occidentali è giunta al suo “redde rationem”, e la crisi da un lato ha prodotto il progressivo restringersi dei bilanci della Difesa dei Paesi membri dell’UE, e dall’altro ha costretto, per motivi analoghi, gli USA a rivedere le proprie priorità concentrandosi sull’area del Pacifico.

Questo, insieme alla consapevolezza che alcune capacità siano ormai fuori della portata di ogni paese europeo, ha spinto l’UE a cercare di imitare la NATO nel passare dagli “sviluppi cooperativi” alla creazione di capacità militari, da acquisire, possedere e gestire in modo collettivo, in tutti i loro aspetti. In tal modo è nato il progetto di “Pooling and Sharing (Raggruppare e Condividere)” il quale risponde peraltro, secondo i suoi ideatori, anche a un’altra esigenza.

Infatti, come riferisce l’EDA, “le capacità-chiave, specialmente quelle (necessarie) per le operazioni oltremare, sono distribuite in modo ineguale e disponibili solo in un numero limitato di Stati Membri, mentre gli equipaggiamenti tradizionali di prima linea – un lascito della Guerra Fredda – sono ancora disponibili in numeri considerevoli. La modernizzazione e la razionalizzazione di questi ultimi, insieme al raggruppamento e la condivisione dei primi, offrono possibilità di cooperazione”[4].

Questa dichiarazione riflette anche le difficoltà incontrate, fin dalla loro costituzione, dai “Battle Groups”, il primo elemento di forze a carattere cooperativo. Si tratta di un tipo di reparto terrestre, costituito inizialmente da 1500 combattenti (poi elevato a 2400), oltre ai supporti operativi e logistici. Ad esso si dovrebbero aggiungere, a seconda del bisogno, adeguate forze aeree e navali, la cui consistenza di massima non è stata mai definita, anche a causa delle serie deficienze europee in tali campi.

Ma le operazioni di pace, in ambienti poco permissivi, richiedono una maggiore integrazione interforze, e soprattutto capacità aere e navali che i Battle Groups non hanno. Per questo, è stata lanciata l’iniziativa del “Pooling and Sharing”. Inutile dire che la diffidenza dei paesi è stata subito notevole, tanto che in alcuni di loro il concetto è stato ribattezzato “Fooling and Scaring (Pasticciare e Spaventare)”.

Per superare tale diffidenza – del resto logica: anche nel caso della Libia si è visto quanto gli “interessi permanenti” dei Paesi Membri divergano tra loro – il 19 novembre 2012 è stato concordato dai Ministri della Difesa dell’UE un “Codice di Condotta, (che) mira a sostenere gli sforzi cooperativi degli Stati Membri per sviluppare le capacità di difesa (e la cui) attuazione è su base nazionale volontaria”[5].

Per ora sono stati selezionati tre progetti, che si aggiungono alla rete di scambio informazioni sulla Sorveglianza Marittima (MARSUR), già in fase avanzata di sviluppo:

– il rifornimento aria-aria, per consentire ai velivoli da combattimento una maggiore permanenza in zona di operazioni. Si pensi, ad esempio, che l’Italia possiede solo due velivoli rifornitori, e molti altri Paesi  UE non ne hanno;

– ospedali da campo modulari. Chi ha seguito la travagliata preparazione dell’operazione UE in Ciad, sa quanto questa capacità sia scarsa e preziosa;

– l’addestramento dei piloti, dato che oggi quelli di molti Paesi UE lo completano negli USA.

Come si può notare, il maggiore progetto cooperativo, quello anglo-francese di una nuova portaerei, è rimasto confinato su base bilaterale, e non è quindi ipotizzabile una disponibilità di tali preziosi mezzi per tutta l’UE.

Altre iniziative, come quelle connesse allo sminamento navale, sono allo studio, e i prossimi mesi ci diranno se anche in quel campo saranno compiuti passi avanti. Ma il problema di fondo, già posto all’attenzione dei Ministri della Difesa, è quello della cooperazione tra la NATO  e l’UE. Un solo progetto coordinato tra le due organizzazioni, quello degli elicotteri, è stato iniziato, fin dal 2008, e procede, sia pure a rilento, ma molto altro va fatto, a meno di non voler compiere enormi sforzi per sviluppare autonomamente in Europa quanto viene fatto oltre oceano: il caso controverso degli F- 35, è l’esempio evidente che in alcuni campi fondamentali l’Europa non può fare da sola.

Conclusioni

In estrema sintesi, il “Pooling and Sharing” soffre per due motivi:

– la scarsa coesione tra i Paesi europei, che rende difficile organizzare il “Pooling” di mezzi essenziali, a imitazione di quanto fatto già dalla NATO (l’esempio tipico è il NATO Airborne Early Warning);

– l’incapacità dell’Europa, sia sul piano industriale, sia su quello finanziario, di fare tutto da sola.

Procedere su tale strada, peraltro, è senza alternative: la complementarietà UE con gli USA è oggi una necessità più dovuta al loro disimpegno, effetto del loro sia pur relativo declino, che non ad altre motivazioni. Come diceva appunto il Ministro Stoltenberg, “un ordine di sicurezza europeo non può consistere in un vuoto di potenza”[6].

Sta ai Paesi membri medio-piccoli decidere se accettare di diventare supplementari a quelli maggiori, rinunciando a possedere le principali capacità – sia pure in numeri ridotti – e limitandosi quindi a sviluppare “capacità di nicchia”, sperando nella disponibilità degli altri in caso di necessità, oppure rimanere alla pari con loro. Questo dilemma è particolarmente vero per l’Italia, le cui recenti esperienze mostrano quanto poco il nostro Paese si possa affidare ciecamente agli altri membri dell’Unione.  

Va detto, per concludere, che l’Europa costituisce il nostro “Futuro Obbligato” in un mondo sempre più multipolare, in cui si sono presentati alla ribalta attori forti di una popolazione decisamente maggiore di quella europea. Per poter reggere il confronto, è necessario che l’Europa si rafforzi sempre più negli anni, e questo sarà possibile solo attraverso la collaborazione tra gli Stati membri.

Intervento al Convegno di Studio “Le spese militari in tempo di crisi: la Smart Defense”, Università Cattolica del Sacro Cuore, Milano, 12 novembre 2013. 

 


[1] J. F. Kennedy, Strategia di Pace. Ed. Mondadori, 1960, pag. 23.

[2] W. Van Eekelen, Debating European Security, 1948 – 1998. Sdu Publishers, The Hague, 1998, pag. 32.

[3] Unione Europea, Trattati Consolidati. Marzo 2010, pag. 38.

[4] EDA, Pooling and Sharing Annual Assessment. Way ahead. Information Paper for the EDA Steering Board, SBID 2013/12, para 10.

[5] Ibid. para 1.

[6] Vds. nota 2.