Il termine “radicalizzazione”, al quale è stato attribuito il significato di ”evoluzione individuale verso l’adozione di determinate idee e, talvolta, verso l’impiego della violenza e delle tattiche terroristiche per raggiungere fini politici”, è entrato in auge solo dopo gli attentati di stampo jihadista, ovvero radicale islamico, commessi a Londra il 7 e 21 luglio 2005 ai danni di affollati mezzi di trasporto pubblico urbano.[1]
Tuttavia, sempre con lo scopo di radicalizzare, agitatori sovversivi conducevano propaganda, indottrinamento ed, eventualmente, reclutamento in numerosi ambienti già dagli Anni Sessanta del secolo scorso, periodo in cui nacque e si sviluppò il terrorismo contemporaneo riconducibile a plurime matrici.
Per gli estremisti protesi verso fini essenzialmente politici, ossia di sinistra e di destra, i principali bacini di sfruttamento includevano e tuttora includono – seppure con differenziabile impegno ed esito – studenti universitari e allievi delle scuole medie superiori; attivisti sindacali; operai; disoccupati, sottoccupati e lavoratori precari; frange extraparlamentari di protesta; e aderenti a particolari correnti partitiche. A loro volta, per gli estremisti protesi verso fini nazional-separatisti risultano tutt’oggi sfruttabili aree di concentramento etnico-culturale a livello regionale.
A partire dall’ultimo ventennio del secolo scorso, con il consolidarsi del terrorismo proteso verso fini specificamente politico-religiosi, in prevalenza di matrice jihadista, hanno acquisito rilevanza per la radicalizzazione e il reclutamento anche i luoghi di culto, il focolare domestico, le comunità di immigrati e il settore carcerario.[2]
Infatti, numerosi luoghi di culto fungono da megafono per imam, attivisti e istigatori radicali islamici. Va ricordato, a titolo di esempio, il significativo caso britannico che include personaggi quali Abdul Huhid della moschea londinese di Regent’s Park; Omar Bakri, leader del gruppo radicale al Muhajiroun, il quale fra l’altro aveva preannunziato un attentato islamista contro la capitale nell’imminenza dei predetti fatti delittuosi del luglio 2005; Imram Wahe, rappresentante nel Regno Unito di Hizb ut Tahrir (Partito della Liberazione Islamica), un movimento con seguaci, oltre che in Europa e in Medio Oriente, in alcune repubbliche ex sovietiche dell’Asia centrale; Abu Qatada, guida spirituale dell’integralismo islamico in Europa ed esule dal 1993 nel Regno Unito, dopo essere stato processato e condannato in Giordania; e l’espatriato egiziano Abu Hamza al Masri, già militante in Afghanistan dove rimase menomato.
Sotto forma di rete informale, sono direttamente o indirettamente collegati a luoghi di culto – sia riconosciuti sia di altra natura – una serie di associazioni ed esercizi commerciali, fra cui risaltano centri culturali, gruppi giovanili, librerie, macellerie, ristoranti, negozi di abbigliamento e Internet caffè.
Si sono parimenti dimostrati sfruttabili i legami di famiglia, grazie alla fiducia ed impegno insiti in determinati focolari domestici.[3] Lo attestano, ad esempio, questi noti fatti di sangue.
• L’attentato del 15 aprile 2013 ad opera dei fratelli Tsarnaev in occasione della maratona di Boston.
• L’attentato del 7 gennaio 2015 ai danni della rivista satirica parigina Charlie Hebdo commesso dai fratelli Kouachi.
• Gli attentati coordinati perpetrati a Parigi il 13 novembre 2015 in cui hanno partecipato i fratelli Abdeslam.
• L’attentato consumato a San Bernardino in California il 2 dicembre 2015 dai coniugi Syed Aizwan Farook e Tashfeen Malik.
• Gli attentati compiuti in contemporanea dai fratelli el Bakraoui a Bruxelles il 22 marzo 2016.
Altro terreno fertile è costituito dalle comunità di immigrati, particolarmente se non integrati nelle nuove terre di residenza. Non di rado vi si stabiliscono immigrati o loro discendenti che, quantomeno a livello psicologico, considerano aliena o addirittura ostile la nazione in cui hanno trovato asilo fuggendo da crisi nel proprio Paese di origine e, pertanto, rifiutano la cultura, i valori, le consuetudini e l’ordinamento giuridico del Paese ospitante. L’infiltrazione sovversiva allo scopo di radicalizzare membri di questi insediamenti migratori disgraziatamente disagiati e non sufficientemente acculturati è suscettibile di consolidamento ed espansione.
A tale proposito sono calzanti i fattori sottostanti e strumentali legati ai disordini che, partendo dalla banlieue parigina il 27 ottobre 2005 (giorno in cui due adolescenti maghrebini nascostisi in una centralina elettrica per sfuggire a un controllo di polizia sono tragicamente deceduti elettrificati), si estesero – seppure in misura minore – alle periferie e al centro di altre metropoli francesi e, sia per imitazione sia per istigazione, a Bruxelles, Liegi, Charleroi, Lovanio, Rotterdam, Atene e Salonicco.
Altrettanto istruttivo è il caso di Molenbeek, una suddivisione amministrativa di Bruxelles densamente popolata da immigrati provenienti dal Nord Africa ed altri Paesi arabi, dove – fra l’altro – sono stati almeno in parte pianificati attentati commessi a Parigi nel luglio del 1995 e nel gennaio e novembre del 2015 ed a Bruxelles nel marzo 2016.
Crescente è, inoltre, la preoccupazione riguardante la radicalizzazione nel settore carcerario, in cui si verificano ripetutamente non solo casi di effettiva conversione religiosa, ma anche di conversione al radicalismo politico-religioso.[4] Nel secondo caso, la religione viene percepita e praticata non come fede, bensì come ideologia.
Poiché l’ambiente carcerario è notoriamente destabilizzante e produttore di solitudine, incertezza, paura e ira, questa condizione facilita la conversione quale rifugio spirituale in qualche forma di credenza e pratica religiosa ed offre, in aggiunta, un terreno fertile per lo sfruttamento di detenuti da parte di agitatori sovversivi protesi verso mire politico-religiose.
La motivazione dei convertiti è attribuibile a fattori che agiscono singolarmente oppure in concerto fra loro. Risaltano il pragmatismo, che include tanto la ricerca di protezione contro pregiudizi, maltrattamenti e violenze, quanto il desiderio di ottenere benefici materiali e psicologici derivanti dall’inserimento in una comunità “scudo”; la brama di possedere un senso d’identità, missione, autostima, forza o superiorità; ed il risentimento razziale o religioso maturato nel tempo.
Per quanto riguarda l’attrazione esercitata negli istituti di pena dall’Islam – religione caratterizzata da semplicità dogmatica, comportamentale e rituale – e, altresì, dal jihadismo, si riscontra il passaggio dall’Islam religioso a quello radicale da parte di detenuti musulmani, nonché la conversione di non musulmani all’Islam quale fede oppure direttamente alla degenerata versione jihadista.
Il proselitismo jihadista abbraccia, da un lato, la predicazione condotta da imam a contratto o volontari e, dall’altro lato, il proselitismo svolto da detenuti carismatici con trascorsi terroristici, per così dire, “qualificanti”.
Per quanto riguarda l’operato della prima categoria di sobillatori, la loro “autorevolezza” è sovente presunta dai detenuti presi di mira. Detti imam, i quali godono di mobilità tra penitenziari e spesso di limitati controlli da parte delle autorità carcerarie, sfruttano l’ignoranza o impreparazione dei detenuti e sono in condizione di individuare e valutare quali di costoro sono ricettivi e vulnerabili.
L’operato della seconda categoria di sobillatori è facilitato dalla frequente carenza di imam istituzionali dediti a fini puramente religiosi ed è, talvolta, tollerato dalle autorità penitenziarie anche a fini di intermediazione con determinate categorie di detenuti.
L’attività sovversiva di queste due categorie di sobillatori è rafforzata dalla diffusione rapsodica, oppure sistematicamente coordinata, di pubblicazioni e video da parte di soggetti totalmente esterni alle carceri. Rilevante è il caso della fondazione saudita al-Haramain, mittente di testi religiosi corredati da traduzione con commenti interpretativi in senso radicale. Solo nell’apparenza di matrice religiosa, dette missive venivano inoltre subdolamente accompagnate da questionari intesi ad ottenere informazioni personali dagli stessi destinatari onde schedare per futura memoria potenziali proseliti inizialmente inconsapevoli dei sottostanti intenti sovversivi.
Ai rischi generati dalla radicalizzazione all’interno degli istituti penitenziari, talvolta accompagnata da disordini, sommosse e tentativi di evasione, si aggiungono attività dirette all’esterno. Sono riscontrabili la funzione ispiratrice/sostenitrice nei confronti delle aggregazioni terroristiche di provenienza degli attivisti in prigionia; l’emissione di proclami e decreti presentati abusivamente come giuridico-religiosi; la diffusione di interviste sovversive clandestinamente registrate; e, perfino, la progettazione di attentati da compiersi da militanti in procinto di essere dimessi dai luoghi di pena.
Le comunicazioni con elementi radicali all’esterno dell’ambiente carcerario avvengono sia con il compiacente ausilio di avvocati difensori, interpreti, parenti o personale penitenziario corrotto, sia per il tramite di strumenti quali la posta non controllata o inefficacemente controllata e cellulari illecitamente accessibili.
Fra i casi significativi ed esemplificativi di radicalizzazione jihadista avvenuta o accentuatasi nei penitenziari e seguita da attentati compiuti, progettati o tentati da ex detenuti, si annoverano quelli in cui emergono come protagonisti i seguenti personaggi di varia nazionalità e con differenziabili ruoli.
• Ayman al-Zawahiri, massimo esponente prima dell’aggregazione terroristica egiziana al-Jihad e poi di al-Qaida.
• Abu Mussab al-Zarqawi, defunto alto esponente di “al-Qaida in Iraq”, successivamente trasformatasi nel sedicente Stato Islamico.
• Abu Brack al-Baghdadi, il quale ha pretestuosamente assunto il titolo di Califfo Ibrahim a capo del sedicente Stato Islamico.
• Safe Brada, responsabile di attentati a Parigi nell’estate-autunno del 1995.
• Richard Reid, autore del fallito attentato del 22 dicembre 2001 sul volo Parigi-Miami.
• Jose Padilla, progettatore di incompiuti attentati con ordigni radiologici negli Stati Uniti.
• Domenico Quaranta, responsabile nel 2001-2002 di attentati ad Agrigento e Milano.
• Mohammed Bouyeri, assassino del cineasta Theo Van Gogh, asseritamente colpevole di blasfemia nei confronti dell’Islam, ad Amsterdam il 2 Novembre 2004.
• Mukhtar Said Ibrahim, uno dei responsabili dei su ricordati attentati di Londra nel luglio 2005.
• Kevin James, progettatore di attentati in California.
• Salah Abdeslam, partecipe degli attentati del 13 novembre 2015 a Parigi.
Ai suddetti bacini ripetutamente sfruttati e tutt’ora sfruttabili al fine della radicalizzazione, si è aggiunto nel secolo in corso l’ausilio mirato della information technology.
Ben nota, efficace ed inquietante è la capacità propagandistica e disinformativa del sedicente Stato Islamico, anche conosciuto come Stato Islamico di Iraq e Siria oppure sotto l’acronimo arabo Daesh. La perizia telematica di questo apparato pseudo-istituzionale jihadista si esprime in campagne mediatiche inclusive di video, social media e link con siti di reclutamento e, persino, indicazioni per acquisti online.
Sicuramente lo strumento telematico agevola l’indottrinamento politico-religioso e può facilitare, in determinati ambienti, consenso o sostegno a favore delle iniziative e dei fini jihadisti. Discusso, invece, è il grado di effettiva influenza dello strumento telematico sulla commissione di attentati direttamente da parte di destinatari non già convinti e predisposti. Ricerche ed analisi hanno sostenuto che, nonostante l’ausilio dell’Internet, continui a prevalere il contatto personale e diretto nella radicalizzazione e nel reclutamento.[5].
Nel contesto del terrorismo internazionale sono comunque multiple le tecniche impiegate per radicalizzare e reclutare. Già negli anni precedenti e immediatamente successivi agli attentati che colpirono New York e Washington l’11 settembre 2001, al-Qaida si avvaleva di quattro tecniche primarie – alle quali sono state rispettivamente attribuite denominazioni simboliche – qui appresso sinteticamente illustrate.[6]
• “Rete”. Analogamente al pescatore, l’agitatore sovversivo getta la metaforica rete in una direzione prescelta e raccoglie quanto possibile.
• “Imbuto”. L’agitatore sovversivo opera in fasi progressive per proselitizzare in modo sempre più intenso e oculato.
• “Infezione”. L’agitatore sovversivo infetta ideologicamente alcuni individui, i quali a loro volta contagiano altri.
• “Seme di cristallo”. Si tratta di una forma di auto-radicalizzazione/auto-reclutamento seguita da iniziative intese a coinvolgere altri.
Per contrastare efficacemente il fenomeno della radicalizzazione, a prescindere dalla natura della fonte politica o politico-religiosa da cui condotta, s’impone in primo luogo una dettagliata conoscenza delle dinamiche, tecniche, potenziali bersagli e risultati effettivi della radicalizzazione stessa nello spazio e nel tempo.
E’, parimenti, fondamentale l’impiego di uno sforzo sinergetico multidisciplinare. In quanto la radicalizzazione abbraccia aspetti sociologici, psicologici, culturali, linguistici, pedagogici e mediatici, è insufficiente il meritevole impegno delle forze dell’ordine. Debbono contribuire allo sforzo di prevenzione e rieducazione, nel vasto contesto di una progettazione ed esecuzione dettagliatamente coordinata, i cultori di tutte le discipline attinenti al contrasto di questo inquietante e delicato fenomeno.
[1] Vedi Daniel Koehler, Violent Radicalization Revisited: A Practice-Oriented Model, Center for Security Studies, Zurigo, 26 giugno 2015, p.1.
[2] L’incidenza della radicalizzazione jihadista e lo sviluppo delle relative metodiche sono oggetto di notevole attenzione da parte dei Paesi di cultura occidentale come si evince dalle ricerche ed analisi nel pubblico dominio. Vedi, ad esempio, Rachel Briggs – Jonathan Birdwell, “Radicalisation among Muslims in the UK”,Institute of Development Studies, University of Sussex, Brighton, Maggio 2009; National Security Criminal Investigations, Radicalization: A Guide for the Perplexed, Royal Canadian Mounted Police, Giugno 2009; Lorenzo Vidino, Jihadist Radicalization in Switzerland, Center for Security Studies, Zurigo, Novembre 2013; National Coordinator for Security and Counterterrorism, Global Jihadism: Analysis of the Phenomenon and Reflections on Radicalisation, Ministry of Security and Justice (Olanda), Dicembre 2014; Didier Bigo – Laurent Bonelli – Emmanuel-Pierre Guitet – Francesco Ragazzi, Preventing and Countering Youth Radicalisation in the EU, Directorate General for Internal Policies, European Parliament, Dicembre 2014.
[3] Secondo uno studio condotto dalla rivista New America su un campione di 474 “combattenti stranieri” provenienti da 25 Paesi occidentali, un terzo risultavano parenti, coniugi, affini o comunque fortemente legati ad elementi jihadisti. Studio citato in Mohammed M. Hafez, “The Ties That Bind: How Terrorists Exploit Family Bonds”, CTC Sentinel, West Point, New York, 19 febbraio 2016, p.1.
[4] Sebbene la radicalizzazione nelle carceri riguardi soprattutto la componente jihadista del terrorismo, già prima dell’emergere del radicalismo islamico contemporaneo si sono verificati – in tono comunque minore – casi di radicalizzazione afferenti aggregazioni di diversa matrice. Ne sono esempi il Symbionese Liberation Army (SLA) negli Stati Uniti e i Nuclei Armati Proletari (NAP) in Italia, entrambi appartenenti all’estrema sinistra rivoluzionaria ed entrambi fautori di sinergia tra i propri aderenti detenuti e quelli in libertà.
[5] Vedi Sam Mullins, “Foreign Fighters in Syria”, Per Concorcordiam., General C. Marshall Center for Security Studies, Settembre 2014. p.37 e J. Skidmore, Foreign Fighter Involvement in Syria, International Institute for Counter-Terrorism, Herzliya, Gennaio 2015. pp.13-15.
[6] Per maggiori dettagli vedi Scott Gerwehr – Sara Daly, Al-Qaida: Terrorist Selection and Recruitment, Rand Corporation , Santa Monica, California, ristampa tratta da Capitolo 5 di McGraww Hill Homeland Security Handbook, New York, 2006.