di Amb. Gabriele CHECCHIA, Presidente Comitato Strategico.
Con il lancio della riflessione NATO 2030 da parte del Segretario Generale Jens Stoltenberg, l’Alleanza Atlantica sta vivendo una nuova fase di adattamento, fase che culminerà il prossimo 14 giugno con il Summit di Bruxelles al quale parteciperanno tutti i capi di Stato e di governo alleati. Ad un mese dal vertice abbiamo intervistato l’Ambasciatore Gabriele Checchia – già Rappresentante Permanente dell’Italia alla NATO – attualmente presidente del Comitato Strategico del Comitato Atlantico Italiano, per saperne di più sui dossier caldi che hanno visto l’Alleanza coinvolta negli ultimi mesi: nuove sfide e rinnovamento del Concetto Strategico, relazioni con la Russia, ritiro dall’Afghanistan, l’ampliamento della missione in Iraq e la possibile guida italiana, l’autonomia strategica e la collaborazione con l’Unione Europea.
Lo scorso giugno il Segretario Generale Jens Stoltenberg ha lanciato il cosiddetto processo NATO 2030, una riflessione sul futuro dell’Alleanza che ha come obiettivo principale il rafforzamento della NATO – sia in ambito militare sia in quello politico – in vista delle nuove sfide che quest’ultima dovrà affrontare, sfide che sembrano sempre più imminenti. Non a caso, da tale riflessione, che è stata una delle protagoniste delle ultime ministeriali, ne è scaturita conseguentemente un’altra sul rinnovamento del Concetto Strategico della NATO. A tal proposito, quali sono le principali sfide che l’Alleanza deve e dovrà affrontare e su cosa il nuovo Concetto Strategico dovrà concentrare la propria attenzione per poter rispecchiare al meglio il mutato contesto di sicurezza?
Una chiara indicazione delle principali sfide alle quali la NATO dovrà far fronte è stata di recente offerta a livello politico dalla Dichiarazione conclusiva del vertice dei capi di Stato e di governo svoltosi a Londra nel dicembre 2019 in occasione del settantesimo anniversario dell’Alleanza. Sono sfide che vanno dalla ritrovata assertività russa alla crescente influenza geopolitica e geo-economica della Repubblica Popolare Cinese – nella dichiarazione di Londra si rileva che tale crescita di influenza e le politiche perseguite da Pechino a livello internazionale comportano sia opportunità che sfide che gli alleati devono affrontare insieme. Altre sfide sono quelle legate alle complesse problematiche derivanti dalle nuove tecnologie, le cosiddette emerging & distruptive technologies (EDT). È possibile classificare come tali tecnologie, ad esempio, l’intelligenza artificiale, i big data, i droni di ultima generazione, i velivoli ipersonici. In aggiunta a queste sfide, vi sono poi quelle legate alla necessità da parte dell’Alleanza di accrescere la resilienza delle strutture civili e militari a fronte delle crescenti minacce ibride, a cominciare da quelle cyber che la NATO e, in particolare, gli Stati Uniti ritengono pervenire in larga misura da parte russa e cinese. Vi sono poi le sfide connesse al controllo degli armamenti – terreno sul quale l’Alleanza è impegnata con convinzione –, quelle legate al contrasto al terrorismo, al rafforzamento dei partenariati – uno su tutti quello con l’Unione Europea –, al controllo dello spazio, al cosiddetto burden sharing e alla ricerca di stabilità ai confini dell’Alleanza, compreso quello meridionale, poiché – e questo per l’Italia è molto importante – a fronte di una NATO che per molti decenni ha guardato soltanto ad Est, come si osserva nella dichiarazione di Londra l’Alleanza deve e dovrà far fronte a minacce provenienti da “tutte” le direzioni strategiche. Come Italia, e in questo senso si stanno esprimendo i nostri Rappresentanti politici e diplomatici nei contesti appropriati, ci riconosciamo nell’esigenza di un adeguamento del Concetto Strategico adottato al vertice di Lisbona del 2010 e ancora in vigore, ma non siamo favorevoli ad un suo stravolgimento. Riteniamo al tempo stesso che l’esercizio di un suo adeguamento è un processo che dovrà contribuire a rafforzare la coesione dell’Alleanza e non rimettere in discussione i principi cardine: il ruolo prioritario di indirizzo e controllo politico del Consiglio Atlantico, la regola d’oro del consenso e la dimensione regionale, vale a dire il suo perimetro rigorosamente euro-atlantico così come definito dal Trattato di Washington.
Vi è poi necessità di rivolgere particolare attenzione ad alcuni specifici temi, alcuni dei quali potenzialmente divisivi come, per esempio, la salvaguardia dei tre compiti principali dell’Alleanza individuati nel Concetto Strategico del 2010 e, ad avviso del nostro paese, tuttora validi: la difesa collettiva sulla base dell’articolo 5, la gestione delle crisi e la sicurezza cooperativa. Gli altri aspetti speciali che vanno salvaguardati, sempre secondo la visione italiana, sono quelli di un approccio equilibrato alla postura militare alleata in particolare verso la Federazione Russa, paese rispetto al quale occorre mantenere margini di dialogo adeguati, il cosiddetto dual track approach basato sia su un dialogo sostanziale sia su una capacità di deterrenza credibile. Tale approccio consentirebbe di coinvolgere la Russia dove possibile in discussioni sulla sicurezza euro-atlantica, per esempio nel settore dell’auspicabile ulteriore ridimensionamento degli arsenali nucleari o della gestione corretta delle crisi regionali. Va anche preservata l’attenzione al mantenimento di un giusto equilibrio tra sfide e opportunità nella valutazione del ruolo della Cina che può essere certamente una sfida ma, se ben gestita, può rappresentare anche un’opportunità. Anche da qui deriva la necessità di conservare ed accrescere il dialogo con i partner della NATO e, più in generale, con le democrazie dell’area dell’Indo-Pacifico, per avere un regolare interscambio e una percezione condivisa delle minacce e della situazione nella regione.
Una NATO in grado di essere più forte militarmente e politicamente e in grado di adottare un approccio più globale. Queste, a mio avviso, sono le sfide attorno alle quali si articolerà la discussione approfondita che verrà lanciata a giugno per l’elaborazione del nuovo Concetto Strategico.
A proposito di Russia, dal 2014 – anno in cui quest’ultima ha annesso unilateralmente la Crimea – i rapporti con la NATO sono peggiorati drasticamente. Da tale evento, infatti, prima con il Summit in Galles e poi con quello in Polonia, l’Alleanza ha deciso di procedere con una postura più “muscolare” soprattutto nel c.d. Eastern Flank attraverso la enhanced Forward Presence e i suoi 4 battlegroups dispiegati in Polonia, Estonia, Lettonia e Lituania. Alla luce dei più recenti avvenimenti, come l’ammassamento di truppe russe al confine con l’Ucraina e il comunicato rilasciato dal North Atlantic Council sugli attacchi cyber da parte di Mosca, quali sono le prospettive dei rapporti tra NATO e Russia? Pensa che l’Alleanza possa spingersi ancora più verso Est con una futura membership di Georgia ed Ucraina?
Il punto dal quale possiamo partire, in aggiunta a quello dell’annessione illegale della Crimea, è il recente discorso di Putin alla Duma nel quale ha parlato di linee rosse che l’Occidente non deve travalicare nei suoi rapporti con Mosca. Quest’ultima – ha affermato Putin – si riserva, nel caso in cui queste linee rosse venissero violate, di rispondere in maniera rapida, asimmetrica e dura. Ciò conferma che le relazioni tra la NATO e la Russia restano difficili perché sono stati troppi, dal 2014 ad oggi, gli elementi di frizione e di incomprensione. Le preoccupazioni alleate circa le politiche di destabilizzazione russe sono molteplici: vanno dalle attività militari provocatorie di Mosca vicino ai confini della NATO ad una retorica militare indubbiamente aggressiva, da una postura militare assertiva specie nel settore missilistico agli interventi in Libia e in Siria. Su tale problematico sfondo, si è arenata purtroppo anche la ripresa del Consiglio NATO-Russia, istituito nel 2002, che ha rappresentato sicuramente il risultato più importante del cosiddetto spirito di Pratica di Mare, e qui mi riferisco al vertice NATO-Russia del 2002. L’ultima riunione del Consiglio si è svolta nel luglio di due anni fa nell’ambito di quell’approccio a doppio binario che ho citato precedentemente, in una linea di sostanziale continuità con la scelta strategica che compì l’allora presidente del Consiglio italiano Berlusconi ma che poi è stata fatta propria da tutti i governi succedutisi. L’Italia è sempre rimasta dell’idea che il dialogo con Mosca vada mantenuto vivo per quanto possibile e per quanto consentito dall’atteggiamento russo, senza tradire i nostri valori. Dunque, come Italia continuiamo a difendere l’importanza del NATO-Russia Council ed è un obiettivo condiviso da un buon numero di alleati europei, tra cui Francia e Germania, che include una comune volontà di pervenire ad un’agenda che assicuri una continuità di dialogo su temi di interesse comune come le crisi regionali o il disarmo nucleare, laddove l’Alleanza e Mosca potrebbero trovare punti di reciproco interesse e di comune responsabilità. Auspichiamo, inoltre, che possano riprendere i contatti tra NATO e Russia anche a livello militare per rafforzare la fiducia reciproca e per evitare dinamiche escalatorie. Personalmente, dato il momento e le più recenti iniziative destabilizzanti del Cremlino, vedo difficile un miglioramento delle relazioni – almeno nel breve periodo – tra l’Alleanza e la Russia.
Sia Georgia che Ucraina possiedono lo status di Enhanced Opportunity Partner che dovrebbe attenuare le loro aspirazioni di un ingresso a pieno titolo all’interno dell’Alleanza. Grazie a questo titolo, Tbilisi e Kiev sono già inserite nel ristretto numeri di paesi con cui la NATO può sviluppare forme di partenariato più avanzato con tipologie molto strette di cooperazione politico-militare, fermo restando l’inapplicabilità dell’articolo 5 del Trattato del Nord Atlantico, che può essere invocato solo su richiesta degli alleati. Ciò detto, diversa e ancora più problematica è la questione di un’eventuale adesione alla NATO di Georgia e Ucraina. Non mi sembra, quantomeno allo stato attuale, scenario né di breve né di medio periodo. Su tale tema, all’interno dell’Alleanza, sussistono tra l’altro posizioni assai diversificate. In ogni caso, il percorso sarà ancora lungo: Tbilisi e Kiev hanno ancora molto da fare soprattutto per quanto riguarda il raggiungimento degli standard NATO in termini di pieno rispetto dello stato di diritto, di tutela delle minoranze e di controllo democratico dello strumento militare. Occorre poi tenere anche presente (oltre alle necessità del rispetto delle condizioni previsto per l’ingresso di nuovi membri previsto dall’articolo 10 del trattato istitutivo) anche le note sensibilità di Mosca. Questo non implica, ovviamente, il riconoscimento alla Federazione Russa di un diritto di veto ma sappiamo che il Cremlino considera l’eventuale ingresso dei due paesi – o anche di uno solo di essi – all’interno dell’Alleanza come un atto ostile, un atto che rischierebbe di incidere pesantemente sui già delicati equilibri regionali e su quelli strategici, per esempio, in tema di disarmo nucleare.
Afghanistan e Iraq sono stati i grandi protagonisti degli ultimi meeting della NATO. Lo scorso febbraio, durante la ministeriale Difesa gli alleati hanno deciso di ampliare la missione in Iraq passando da 500 a 4000 uomini ed è in questo contesto che l’Italia, confermato anche dal ministro Guerini durante un’audizione alla Commissione Difesa di Camera e Senato, sembrerebbe voler assumere la leadership della missione. Per quanto riguarda l’Afghanistan invece, durante il meeting straordinario tra ministri degli Esteri e della Difesa avvenuto lo scorso 14 aprile, l’Alleanza ha deciso di seguire gli Stati Uniti con il ritiro – a partire dal 1° maggio ed entro l’11 settembre – del personale dispiegato con la missione Resolute Support. Come le interpreta queste due decisioni? Pensa che il ritiro di tutti i soldati possa essere una vittoria per la NATO e per gli Stati Uniti? Per l’Italia, invece, che ha comunque una sua speciale tradizione nelle missioni internazionali, quali vantaggi potrebbe portare la leadership della NATO Mission Iraq?
Il progressivo ritiro dei contingenti dall’Afghanistan rappresenta l’inevitabile conseguenza della decisione di graduale, volontario e ordinato ritiro del contingente americano a partire dal 1° maggio ed entro il prossimo 11 settembre annunciata dal presidente Biden ancor prima della ministeriale del 14 aprile. È improbabile, infatti, immaginare una prosecuzione della missione NATO senza la partecipazione del contingente e dei relativi assetti statunitensi in un contesto di sicurezza afghana che resterebbe ad alto rischio a causa dell’ostilità talebana. Un’eventuale e prorogata presenza militare in tali condizioni sarebbe inoltre, a mio avviso, poco coerente con la traiettoria politico-diplomatica per il processo di pace intra-afghano prefigurato da parte americana a partire dall’accordo di Doha tra la leadership talebana e l’Amministrazione Trump. Inoltre, come è stato opportunatamente rilevato dalla dichiarazione conclusiva della ministeriale dello scorso 14 aprile, l’obiettivo di scongiurare che l’Afghanistan potesse diventare di nuovo un rifugio sicuro per i terroristi e per le loro operazioni ai danni dei nostri paesi, può dirsi raggiunto come ha osservato anche l’Amministrazione Biden, in particolare con l’eliminazione nel 2011 di Osama bin Laden.
L’Afghanistan oggi è un paese profondamente diverso da quello del 2001 e, in questo senso, vorrei ribadire il mio apprezzamento per lo straordinario contributo offerto dal nostro paese e dalle nostre Forze Armate, da tutti apprezzato. È un paese diverso sotto molteplici profili, a partire dai diritti civili e dall’accesso all’educazione e all’assistenza sanitaria delle quali negli ultimi venti anni hanno potuto beneficiare – grazie all’impegno della comunità internazionale e dell’Alleanza Atlantica – milioni di afghani. Se invece ci collochiamo in un’ottica più ampia il quadro appare molto più sfumato e carico di interrogativi inquietanti sul futuro del paese (come testimoniato, purtroppo, dai terribili attentati verificatisi nei giorni scorsi a Kabul). Non è per nulla scontato che gli importanti traguardi sopra citati siano destinati, una volta avvenuto il ritiro delle forze, a rivelarsi irreversibili come noi tutti vorremo. Al momento gravano delle incognite importanti anche sul futuro del processo di riconciliazione intra-afghano con i talebani che probabilmente si sentiranno rafforzati dall’annuncio americano di una data entro la quale il ritiro sarà comunque portato al termine. Il futuro dell’Afghanistan dipenderà non solo dall’evoluzione del contesto interno ma anche da quello internazionale.
La probabile assunzione da parte italiana della guida della NATO Mission Iraq sarà sicuramente un impegno complesso ma anche un banco di prova della capacità dell’Alleanza di proiettare stabilità, il c.d. projecting stability, verso il quadrante meridionale attraverso attività di defense capacity building come quelle intorno alle quali già si articola la missione della NATO in Iraq a beneficio delle forze irachene. Le due decisioni che renderanno ancora più impegnativo il compito delle nostre Forze Armate alla guida della missione sono quelle dello spostamento del focus dell’attività addestrativa da un training a livello tattico ad una consulenza e formazione a livello strategico, e secondo elemento, un’espansione sia in termini geografici a tutto il territorio iracheno – attualmente la missione è limitata solo all’area di Baghdad – sia in termini tematici poiché la prossima missione addestrativa dovrà essere a beneficio di tutte le forze di sicurezza irachene e non solo dell’esercito. Per l’Italia vi sono ovviamente dei possibili ritorni in termini strategici. Il primo è quello di un’ulteriore crescita complessiva della nostra credibilità internazionale considerando anche che il nostro paese da tempo esercita altri prestigiosi comandi che aiutano la pace e la stabilità internazionale, da quello di UNIFIL in Libano a quello di KFOR in Kosovo. Il secondo è quello della crescita del peso negoziale con l’alleato americano da far valere in spirito di solida amicizia sui tavoli ritenuti più opportuni e con le modalità più appropriate. Infine, l’assunzione del comando della missione in Iraq ci consentirà di disporre di un’ulteriore credibile carta per assicurare quell’accresciuta attenzione della NATO al versante meridionale che ha già trovato una prima e significativa manifestazione nell’istituzione nel 2017 del NATO Hub for the South incardinato presso il JFC di Napoli. Alcuni benefici potranno sicuramente arrivare anche nei rapporti bilaterali con l’Iraq. Quest’ultimo, tra l’altro, con poco più del 19% delle nostre importazioni totali di greggio è il nostro fornitore principale di petrolio e abbiamo dunque tutto l’interesse di una sua stabilizzazione anche in chiave di contenimento delle mire di altri attori regionali.
Nell’ultimo periodo la retorica della ricerca di una maggiore autonomia strategica da parte dell’Unione Europea, delineata nella propria Global Strategy del 2016, è fortemente tornata in voga nel dibattito politico transatlantico. A tal proposito, il Generale Graziano, Chairman del Comitato Militare dell’UE – in una recente intervista – ha dichiarato che per autonomia strategica “non si deve intendere l’autonomia da qualcuno, ma la capacità di agire da soli se necessario, con i partner quando possibile”. Altri invece pensano che il principale framework di riferimento per la sicurezza euro-atlantica debba rimanere la NATO. Per le due organizzazioni è possibile una convivenza senza duplicazioni e senza competizioni? L’autonomia strategica è un’opportunità o una sfida per la NATO?
Per rispondere in maniera credibile credo sia necessario chiarire cosa si intende per autonomia strategica. Direi che ci sono due interpretazioni della formula dell’autonomia strategica. La prima, cara soprattutto alla Francia, è quella di un’autonomia strategica europea da allargare poco a poco fino a comprendere tutti gli aspetti: economici, industriali, commerciali, tecnologici. Un’autonomia strategica dell’Europa nei confronti del partner e alleato statunitense che si tradurrebbe in sostanza in qualcosa di molto simile ad una vera e propria sovranità europea in tutti i terreni rilevanti per una proiezione geopolitica e di potenza. In questo caso, la compatibilità e la convivenza con la NATO potrebbe rivelarsi non agevole. La seconda interpretazione, quella che lei ha citato e a cui fa riferimento il Generale Graziano, mi sembra perfettamente complementare alle relazioni con la NATO. Questo perché tale interpretazione, da un lato, manterrebbe senza equivoci nelle mani dell’Alleanza le chiavi della difesa collettiva come previsto dall’articolo 5 del Trattato di Washington, dall’altro non metterebbe neppure in discussione quella funzione politica dell’Alleanza come strutturato ed esclusivo foro di consultazione permanente e mirata tra le due sponde dell’Atlantico.
Qualora al termine del dibattito europeo dovesse essere quest’ultima concezione dell’autonomia strategica ad affermarsi, o una visione non troppo dissimile, gli sviluppi in tema di difesa europea verrebbero ricondotti al solo punto del crisis management nell’alveo di quell’approccio integrato delineato dalla European Union Global Strategy (EUGS) del 2016. Si tratterebbe di uno sviluppo che non ci porterebbe in conflitto con gli obblighi atlantici e che si collocherebbe nei parametri tradizionali come definiti dai trattati europei e dai rilevanti documenti di policy a partire proprio dall’EUGS. Direi, dunque, che l’autonomia strategica può rappresentare un’opportunità più che una sfida tanto per la NATO quanto per l’Unione Europea se si afferma la nostra visione, quella non conflittuale con l’Alleanza poiché permetterebbe un salto di qualità nella collaborazione – che in questi ultimi anni ha compiuto progressi significativi – tra NATO e UE sempre ove da parte europea non si ceda alla pericolosa tentazione di fare a meno degli Stati Uniti sul cruciale terreno della sicurezza.
Ad ogni modo, un passo nella buona direzione sul versante di una più stretta collaborazione tra UE e USA/NATO in materia di difesa mi sembra rappresentato dalla recente decisione dei ministri degli Esteri dell’Unione di accogliere la richiesta americana di partecipare al progetto di mobilità militare della PESCO. Questo sviluppo, che ha anche un forte valore simbolico, potrebbe infatti – al di là degli aspetti di merito – da un lato contribuire a rassicurare gli alleati più atlantisti, in particolare i paesi di area ex sovietica sul fatto che non vi sarà decoupling tra gli Stati Uniti e l’Europea in materia di difesa; dall’altro, contribuire ad imprimere un’impronta più costruttiva al dialogo ancora in divenire tra la NATO e l’UE per definire al meglio le possibili sinergie su tale delicato versante anche per quanto riguarda la messa a fuoco di una sostenibile visione dell’autonomia strategica dell’Unione Europea.
Ambasciatore, ultima domanda. Secondo lei qual è il vero valore aggiunto che ha reso la NATO “l’Alleanza più forte e più longeva della storia”?
I motivi che, a mio avviso, la rendono ancora un’Alleanza insostituibile e ad alto valore aggiunto per la nostra sicurezza sono tre. Il primo è che essa consente di ancorare in Europa una consistente presenza militare statunitense. La storia ci insegna che cosa può derivare da un disimpegno americano come avvenuto tra la Prima e la Seconda Guerra Mondiale. Qualora gli Stati Uniti fossero rimasti in Europa e non si fossero sfilati dalla Società delle Nazioni probabilmente molte delle tragedie che abbiamo vissuto, a cominciare dal secondo conflitto mondiale, non si sarebbero verificate. Senza il supporto e le garanzie offerteci dalla NATO sul terreno della sicurezza non avremmo avuto tra l’altro neanche il decollo del progetto europeo. Il secondo motivo è che l’Alleanza ci consente di fronteggiare in solidarietà di valori l’offensiva a tutto campo portata avanti dalle riemergenti potenze a regime autoritario, Russia e Cina in primis ma anche l’Iran. Il terzo motivo è che può consentire all’UE di concentrare le proprie risorse nella messa in sicurezza e stabilizzazione di aree più vicine a partire dal Mediterraneo e dall’area MENA, mantenendo invece la gestione prioritaria di altri dossier securitari di valenza strategica come quelli che ci potrebbero vedere impegnati sul confine orientale.
Intervista di Alessandro Savini, Research Fellow a Geopolitica.info.