L’evoluzione della NATO e il futuro della sicurezza transatlantica

Intervento di Fabrizio W. Luciolli, Presidente del Comitato Atlantico Italiano, al corso di formazione “Le relazioni transatlantiche. Europa e Stati Uniti. Storia e politica di un’alleanza strategica” organizzato dalla Fondazione Farefuturo. 3 aprile 2025.


Ringrazio la Fondazione Farefuturo, con cui il Comitato Atlantico Italiano collabora da molti anni, ed è un piacere essere qui proprio in un momento particolarmente significativo: mentre parliamo, i nostri Ministri degli Esteri si stanno riunendo a Bruxelles.

La peculiarità dell’Alleanza Atlantica è quella di essere un’organizzazione politica che è dotata anche di una “gamba militare”, cioè di uno strumento di difesa, a protezione dei valori delle nostre società: libere, aperte e democratiche. Ed è proprio da qui che voglio partire, collegandomi ai temi di stretta attualità.

Viviamo in un contesto in cui, pur essendo alleati, ci troviamo spesso anche in competizione economica, come dimostrano i dazi che talvolta ci imponiamo reciprocamente. Ma questa è, in fondo, una caratteristica fisiologica delle democrazie liberali: sistemi liberi ed aperti in cui la competizione fa parte del nostro DNA politico ed economico.

Queste dinamiche transatlantiche non sono una novità. Se guardiamo alla storia, vediamo come le divergenze tra Europa e Stati Uniti siano sempre esistite. Negli anni ’50, ad esempio, ci fu la crisi di Suez; più tardi, l’Europa non sostenne gli Stati Uniti nella guerra del Vietnam; alla fine degli anni ’70 e nei primi anni ’80 si discusse sul dispiegamento degli euromissili; negli anni ’90 gli Stati Uniti furono inizialmente riluttanti a intervenire nei Balcani. E potremmo proseguire, arrivando fino ai giorni nostri, con i recenti sviluppi geopolitici.

Tuttavia, oggi ci troviamo di fronte a uno scenario radicalmente diverso. Il mondo è profondamente cambiato. La velocità di questi cambiamenti è senza precedenti, e le sfide legate alla sicurezza sono diventate molto più complesse, multidimensionali e pericolose. Eppure, resta intatta la vitalità delle nostre società democratiche, aperte e pluraliste.

Vorrei citare un editoriale pubblicato su Le Figaro nel maggio del 1951, con il quale un celebre europeista e atlantista quale Raymond Aron affermava che “Nonostante il patto che ci lega fra le due sponde dell’Atlantico, e nonostante i profondi legami culturali, le nostre relazioni sono divise da divergenze profonde e talvolta insanabili.” Cito queste parole per sottolineare come la dialettica interna alla comunità atlantica sia sempre stata parte integrante della sua natura.

Tuttavia, oggi il contesto è più complesso, più instabile e con sfide globali che si evolvono con una rapidità senza precedenti. Questo ci impone di non affrontare il futuro guardando solo nello specchietto retrovisore. Serve una visione strategica caratterizzata da innovazione e consapevolezza delle responsabilità che è necessario assumersi.

Se osserviamo l’evoluzione dell’Alleanza Atlantica – e in particolare della NATO, l’Organizzazione del Trattato del Nord Atlantico – notiamo che essa ha dimostrato una straordinaria capacità di “adattamento” ai cambiamenti dello scenario di sicurezza, pur mantenendo salda la sua missione originaria: proteggere i nostri territori e le nostre popolazioni e il nostro sistema di libertà e valori.

Il Trattato che fonda l’Alleanza, firmato il 4 aprile 1949, è composto da appena 14 articoli, meno di due pagine. È interessante notare la differenza rispetto ai trattati europei, molto più dettagliati e complessi. Eppure, proprio questa sintesi ha permesso all’Alleanza di evolversi in modo flessibile e pragmatico.

Negli anni ’50 nasce l’organizzazione operativa dell’Alleanza Atlantica, la NATO appunto, che nel tempo ha assunto un ruolo sempre più centrale nella gestione della difesa collettiva. Oggi, tuttavia usiamo i termini “NATO” e “Alleanza Atlantica” in modo interscambiabile.

La NATO, pur avendo attraversato diversi periodi storici e relativi adattamenti dei suoi compiti, ha sempre mantenuto lo stesso scopo originario: difendere le nostre libertà, incluso il libero mercato e la sana competizione economica, come vediamo anche oggi con le politiche commerciali e i dazi.

Anche se lo scenario di sicurezza globale è cambiato, la funzione e lo scopo dell’Alleanza Atlantica non è mutata. Sono gli strumenti e strategie per continuare a svolgere la missione di sempre che vengono aggiornati. A tal fine, la NATO si è dotata periodicamente di un Concetto Strategico, un documento che aggiorna la visione dell’Alleanza con un orizzonte di dieci anni. Il più recente è stato approvato a Madrid nel 2022, ma richiede continue puntualizzazioni, aggiornamenti, soprattutto in vista dei vertici dei Capi di Stato e di Governo, quale quello dell’Aja del giugno 2025.

L’insediamento della seconda amministrazione Trump, richiede un serio riequilibrio degli oneri fra l’Alleato statunitense e quelli europei e il Canada, in una prospettiva di un necessario rafforzamento delle capacità politiche e militari dell’Alleanza Atlantica.

Va ricordato, difatti, che la NATO è un’organizzazione politico-militare, con una finalità eminentemente politica. Ciò appare evidente allorquando si consideri come il suo organo decisionale supremo sia il Consiglio Atlantico, che può riunirsi a vari livelli:

  • a livello di Capi di Stato e di Governo, come accadrà nel vertice previsto per il mese di giugno;
  • a livello dei Ministri degli Esteri, come sta avvenendo proprio in questi giorni;
  • oppure a livello dei Ministri della Difesa.

La frequenza delle riunioni è aumentata rispetto al passato: oggi avvengono con maggiore frequenza anche in formati allargati che includono i partner con cui la NATO ha relazioni consolidate. Partner che, in diversi casi, hanno poi manifestato la volontà di aderire formalmente all’Alleanza.

A tal riguardo, è importante sottolineare come la NATO non si “allarga”, come spesso si afferma: piuttosto la NATO accoglie le richieste di adesione, secondo quanto previsto dall’Articolo 10 del Trattato Atlantico. Si tratta quindi di un processo volontario, basato su criteri politici e non di un’espansione unilaterale.

La storia della NATO è, a tutti gli effetti, una storia di successo: nel 2025 si è celebrato il 76º anno di vita dell’Alleanza. Qualche anno fa, Brookings Institution ha condotto uno studio sulle alleanze militari e le organizzazioni di sicurezza esistite negli ultimi cinque secoli. E’ emerso che la durata media di queste alleanze era di circa 15 anni e su 63 organizzazioni analizzate, solo 10 avevano superato i 40 anni di esistenza.. La longevità della NATO, dunque, è un’eccezione e un indicatore della sua solidità.

A differenza di altre organizzazioni internazionali, la NATO ha una struttura molto peculiare. È spesso associata, anche a livello giuridico, all’Articolo 51 della Carta delle Nazioni Unite, che riconosce il diritto di autodifesa collettiva fino a quando il Consiglio di Sicurezza non prenda provvedimenti. La NATO è quindi riconosciuta come una organizzazione regionale ai sensi del Capitolo VIII della Carta dell’ONU.

Diversamente dalle Nazioni Unite, che hanno una vocazione globale e affrontano una vasta gamma di temi e compiti – dalla pace alla sicurezza, dallo sviluppo sostenibile alla cooperazione umanitaria – la NATO ha un mandato specifico: garantire la difesa collettiva, la difesa dei territori e del miliardo di cittadini degli Stati membri.

Un altro confronto utile è con l’Unione Europea. Già il nome stesso – Unione – ne rivela le diverse finalità: un processo d’integrazione progressiva degli Stati membri. L’obiettivo dell’UE è creare politiche comuni, condividere sovranità, anche in ambito di sicurezza e difesa con un futuro esercito comune. Al contrario, la NATO non mira all’integrazione, ma piuttosto al coordinamento tra Stati sovrani che conservano piena autonomia in materia militare e contribuiscono alla difesa collettiva attraverso i propri contributi nazionali.

Infatti, la NATO non possiede un proprio esercito. Quando viene lanciata una missione, ciascun Paese contribuisce volontariamente con forze armate e mezzi propri, mantenendo le proprie uniformi e catene di comando nazionali. Si procede tramite una conferenza di generazione delle forze, durante la quale gli Stati membri concordano i contributi da fornire in base al piano operativo stabilito.

Questa è una delle caratteristiche distintive della NATO: è, prima di tutto, un’organizzazione politica, ma ha al suo interno una struttura militare integrata, che consente il coordinamento tra gli assetti nazionali per garantire la difesa collettiva.

In sintesi, la NATO è un’organizzazione di natura difensiva, nata per proteggere i territori e il miliardo degli attuali cittadini dei suoi Stati membri e salvaguardare i valori fondamentali dell’Alleanza: democrazia, stato di diritto e libero mercato. Ancora oggi, 76 anni dopo la firma del trattato di Washington, continua a svolgere questa funzione, adattandosi ai cambiamenti dello scenario internazionale senza perdere di vista la sua missione originaria.

Questi sono i concetti fondamentali su cui si basa la NATO, concetti che si sono evoluti e adattati nel tempo in risposta ai cambiamenti dello scenario di sicurezza. In pochi passaggi, possiamo delineare le principali fasi evolutive dell’Alleanza e arrivare così a comprendere più agevolmente le sfide attuali.

Durante i primi quarant’anni di Guerra Fredda, dal 1949 alla caduta del muro di Berlino del 1989, il concetto di sicurezza era strettamente legato ad una statica difesa territoriale: la protezione dei confini dell’Alleanza era principalmente affidata a una presenza militare permanente e dissuasiva.

Con la caduta del Muro di Berlino, a pochi chilometri da noi, nei Balcani, esplodono tensioni di natura politica, economica e sociale. Il concetto di sicurezza comincia ad assumere nuove e più ampie dimensioni di carattere politico, economico e sociale. La stabilità non è più garantita solo con la difesa dei confini, ma richiede anche strumenti di proiezione di stabilità, così come di prevenzione e gestione delle crisi.

È in tale contesto che si avviano i Partenariati per la Pace, strumenti di cooperazione con le nuove democrazie dell’Europa centrale, orientale e sudorientale, che desideravano un legame più stretto con l’Occidente e, in particolare, con la NATO.

Un concetto di sicurezza ben più dinamico, che per continuare a proteggere l’Alleanza richiede d’intervenire laddove originano le instabilità, i rischi e le minacce. La NATO inizia a impegnarsi in missioni di peacekeeping, come nel 1995 in Bosnia e successivamente in Kosovo, dove è ancora attiva oggi con l’operazione KFOR, a garanzia della stabilità regionale.

Queste esperienze hanno permesso di riportare stabilità nei Balcani, avvicinando molti Paesi della regione alla NATO, che chiederanno d’intraprendere un percorso di adesione che ha contribuito altresì ai successivi processi d’integrazione nell’Unione Europea.

Se si considerano queste due fasi dell’evoluzione dell’Alleanza Atlantica, è possibile rilevare una differenza nei compiti storicamente svolti dall’Alleanza: da quelli di statica difesa territoriale e prettamente di difesa collettiva della Guerra Fredda, a quelli più dinamici di proiezioni di stabilità attraverso il Partenariati per la Pace e di gestione delle crisi con proiezione di forze.

La fase che oggi la NATO è chiamata ad affrontare appare ben più complessa.

Se guardiamo a Est, all’aggressione non provocata della Federazione Russa all’Ucraina e alle crescenti tensioni lungo il fronte orientale dell’Alleanza, è evidente la necessità di rafforzare le capacità di difesa collettiva, tipica della Guerra Fredda. Ma se rivolgiamo l’attenzione a Sud, verso il Mediterraneo e il Medio Oriente, ci confrontiamo con uno scenario di conflitti e crescenti instabilità, caratterizzate anche dalla minaccia del terrorismo e della proliferazione delle armi di distruzione di massa, da crisi energetiche, guerre ibride e migrazioni.

Differentemente dal passato, quando la NATO è passata da una fase esclusivamente di difesa collettiva ad una prevalentemente di gestione delle crisi, la NATO oggi è chiamata ad a 360 gradi e affrontare contemporaneamente entrambe le funzioni.

Due ambiti, un tempo separati, sono ormai interconnessi e interdipendenti. Basti pensare alla crescente presenza della Russia in Libia, alla crisi nel Sahel o alle minacce che provengono dalla regione mediorientale: tutto questo impatta direttamente sulla nostra sicurezza e, in particolare, su quella dell’Italia, che si proietta nel Mediterraneo con oltre 8.000 km di coste.

Inoltre, va osservato come quadro operativo sia divenuto ben più complesso. Ai tradizionali tre domini operativi costituiti dall’aria, dalla terra e dal mare, oggi si sono aggiunti quello cibernetico e dello spazio. Acquista, inoltre, sempre maggiore rilevanza la dimensione subacquea ove transitano i cavi con i dati che alimentano le nostre transazioni economiche piuttosto che i gasdotti e le pipelines necessari per gli approvvigionamenti energetici delle nostre industrie ed economia.

Le minacce non solo sono aumentate, ma arrivano con una rapidità senza precedenti: sono digitali, ibride, invisibili, e spesso colpiscono in tempo reale.

Per questo la NATO è chiamata ad essere sempre più agile, proattiva e innovativa. Deve adattarsi a un mondo in cui i concetti di sicurezza si sono ampliati e intrecciati, senza però mai perdere di vista la sua missione originaria: difendere i territori e le popolazioni degli stati membri e i nostri valori di libertà, democrazia e rispetto delle regole del diritto che sorreggono le nostre società libere e aperte, e pertanto più vulnerabili.

In tale quadro, il cambiamento climatico, costituisce un moltiplicatore d’instabilità che ha un impatto profondo su tutte le dimensioni della sicurezza. Pensiamo, ad esempio, alle conseguenze dell’innalzamento delle temperature globali in termini di scarsità idrica.

Secondo l’Arab Human Development Report, paesi come il Marocco o il Libano, già attraversati da tensioni politiche ed economiche, affrontano oggi problemi di accesso all’acqua potabile che possono ridursi fino al 12–15% col semplice innalzamento della temperatura di poco più di 1 grado. E se consideriamo che gran parte del continente africano è stato suddiviso seguendo confini tracciati artificialmente, dove risorse naturali come fiumi e laghi sono condivise da più Stati, è evidente come la scarsità d’acqua possa diventare fonte di future tensioni e conflitti.

Ci troviamo dunque in uno scenario estremamente complesso, interdipendente e in continua evoluzione.

Le capacità militari si sono a loro volta trasformate. Oggi esistono armi ipersoniche, dotate di velocità e imprevedibilità senza precedenti, che impongono una revisione delle nostre capacità di risposta. Allo stesso modo, lo sviluppo della minaccia nucleare non è più limitato a pochi attori globali: è sempre più accessibile a un numero crescente di Paesi.

Di fronte a questo contesto inedito, si impone una riflessione profonda sul nostro livello di preparazione e investimento nella difesa. Dobbiamo rivedere le risorse che destiniamo alla sicurezza, in particolare la quota del nostro PIL destinata alla difesa nazionale, perché le sfide attuali non sono paragonabili né a quelle del periodo della Guerra Fredda né a quelle del periodo immediatamente successivo, segnato dalla gestione delle crisi regionali.

Oggi dobbiamo contemporaneamente occuparci: della difesa collettiva, della gestione delle crisi internazionali, in un contesto operativo multidominio esteso ad almeno cinque domini: aria, terra, mare, spazio e cyberspazio.

E lo dobbiamo fare in tempo reale, contro minacce sempre più complesse e multidimensionali: dalla cybersecurity, alla difesa missilistica, fino alla sicurezza energetica.

Il nostro spazio europeo, in particolare, si trova oggi esposto come mai prima d’ora. Questo richiede visione strategica, cooperazione rafforzata tra alleati e un impegno concreto e credibile in termini di risorse e capacità.

Oggi ci troviamo a fronteggiare minacce complesse e multidimensionali, simili a quelle che Israele affronta quasi quotidianamente con sistemi come l’Iron Dome e altri strumenti di difesa avanzati. Per questo motivo, anche la NATO ha aggiornato il proprio approccio strategico, adottando negli ultimi anni un nuovo Concetto Strategico, reso operativo attraverso vertici come quello dell’Aja, e strutturato in tre grandi Piani Regionali di difesa.

Questi piani coprono: l’area del Nord Atlantico, fino all’Artico; il quadrante europeo centrale e orientale; l’area dei Balcani e del Mediterraneo, che riguarda da vicino il nostro Paese.

Sono Piani che richiedono specifici Obiettivi di Capacità particolarmente impegnativi, sia in termini di pianificazione che di risorse, soprattutto per l’Italia, e comportano una crescente integrazione delle capacità nazionali di pianificazione in stretto coordinamento e monitoraggio costante dell’Alleanza.

Tutto ciò si inserisce in un contesto globale e segnatamente euro-atlantico, che richiede una ineludibile assunzione di maggiori e più equilibrate responsabilità da parte degli europei. Richiesta  proveniente da un’amministrazione statunitense che ha chiaramente indicato l’esigenza di riequilibrare il peso degli oneri all’interno dell’Alleanza. Fino ad oggi, gli Stati Uniti hanno sostenuto circa il 70% delle spese NATO, un dato che, seppur noto da anni, appare oggi politicamente e strategicamente non più sostenibile.

Il tema del burden sharing fra le due sponde dell’Atlantico, cioè della condivisione equa delle spese e delle responsabilità, è sempre stato presente fin dalla firma del Trattato, ma oggi, in un contesto tanto più delicato e complesso, non può più essere eluso. Le minacce provengono da Est, da Sud, ma anche da competitori sistemici globali come la Cina, e richiedono una risposta collettiva, coordinata e sostenibile.

In questo contesto, il ruolo dell’Italia può essere centrale, soprattutto nell’ampia regione del Mediterraneo “allargato”. Lo sviluppo della cooperazione strategica con l’India, ad esempio, sarà essenziale non solo per gli sbocchi commerciali ma anche per l’equilibrio geopolitico dell’area. In tal senso, è rilevante la recente nomina dell’ambasciatore Francesco Talò come Rappresentante Speciale dell’Italia per il corridoio Indo-Mediterraneo (IMEC): già ambasciatore in Israele e presso la NATO, nonché consigliere diplomatico del Presidente del Consiglio, rappresenta la figura ideale per rafforzare il nostro posizionamento in questa iniziativa strategica.

Al vertice dell’Aja del giugno 2025, l’Italia si presenta con il raggiungimento dell’impegno nella spesa per la difesa del 2% del PIL, fissato già nel 2014 al vertice in Galles. Alle difficoltà dell’Italia al raggiungimento della quota del 2% ha, tuttavia, sempre fatto riscontro un impegno delle Forze Armate italiane secondo solo agli USA, con responsabilità di guida di rilevanti operazioni NATO.

L’obiettivo del 5% da raggiungersi entro il 2035, da declinarsi con un 1.5% da destinarsi a spese infrastrutturali e di sicurezza, richiederà un notevole sforzo di riallocazione delle risorse, accompagnato da una migliore razionalizzazione di quanto già facciamo, per poter rispondere con maggiore efficacia agli impegni richiesti dalla NATO.

Va inoltre ricordato che durante la Guerra Fredda – un’epoca meno complessa di quella attuale – era prassi destinare oltre il 3% del PIL alla funzione difesa. Oggi si discute di tornare almeno a quella soglia per gli aspetti relativi agli armamenti, alla difesa missilistica, con una forte riorganizzazione della piattaforma industriale.

Tutto ciò avviene in un momento storico in cui gli Stati Uniti devono ribilanciare il proprio impegno strategico verso il quadrante Indo-Pacifico. Di conseguenza, è inevitabile che gli alleati europei si assumano una maggiore responsabilità per la sicurezza del proprio continente.

L’Alleanza Atlantica, con i suoi oltre 70 anni di storia, rimane un’anomalia positiva nel panorama delle organizzazioni internazionali: una struttura stabile, credibile e collaudata, che continuerà a rappresentare l’unico foro di consultazione transatlantica sui temi di sicurezza, ancoraggio fondamentale per la comunità euro-atlantica.

Tuttavia, nell’attuale scenario d’insicurezza, caratterizzato dalla immanente minaccia della Federazione Russa e dalle sfide di rivali sistemici quali la Cina, il futuro della NATO dovrà essere guardato non solo in termini geografici, ma sempre più in termini valoriali. I partenariati strategici con Paesi che condividono gli stessi valori di libertà e di visione del mondo – quali il Giappone, la Nuova Zelanda, la Corea del Sud o i membri del patto AUKUS (Australia, Regno Unito e Stati Uniti), senza dimenticare Israele, in particolare nel campo delle tecnologie emergenti – andranno rafforzate.

In conclusione, ci troviamo a un nuovo tornante della storia. Non si tratta di un capitolo nuovo ma di scrivere un nuovo libro di cui occorrerà indicare i margini e le linee di azione. Sarà sempre più compito degli alleati europei e del Canada assicurare i contenuti di questo nuovo volume della storia della comunità euro-atlantica rinnovando il legame transatlantico su parametri più equilibrati. Sarà necessaria una nuova visione strategica, accompagnata da impegni e investimenti concreti e coerenza politica per affrontare le sfide che ci attendono. L’Italia può e deve fare la sua parte, contribuendo in modo determinante alla sicurezza della comunità euro-atlantica, valorizzando sia il proprio ruolo storico di paese fondatore della NATO e dell’Unione Europea, sia le nuove opportunità di cooperazione di un mondo sempre più multipolare ma interconnesso.