La violenta guerra civile che strazia da tempo la Siria si trascina ormai in una situazione di apparente equilibrio tra le parti, sia pure tra alti e bassi; di solito, in questo genere di conflitti si arriva a un punto morto quando ambedue i campi sono riforniti di armi, mezzi e soldi dall’esterno in quantità e qualità simili, il che è un indizio di un notevole interesse da parte delle potenze mondiali – siano esse statuali o di altro tipo – verso questa lotta senza quartiere.
Naturalmente, per questi attori esterni si tratta di un interesse egoistico, dato che un conflitto di questo tipo fornisce loro un’occasione per conquistare un’influenza predominante nell’area, se trionfasse la fazione da loro appoggiata. Quello che deve essere indagato è se il conflitto sia dovuto a motivi occasionali, e quindi poco suscettibile di ripetersi nel tempo, oppure è reso ricorrente dall’esistenza di ragioni strutturali, il che comporta per il paese interessato – la Siria, nel nostro caso – una prospettiva di ulteriori scoppi di violenza nel futuro, anch’essi inevitabilmente alimentati dall’esterno. Il modo migliore per scoprirlo è, come al solito, di guardare la storia del paese e considerarne la collocazione geografica.
Come vedremo tra breve, è possibile dimostrare che la geografia congiura contro questo disgraziato paese, e la storia ne è la dimostrazione più convincente; non vi sono quindi soluzioni facili per la Siria, che potrà raggiungere un assetto stabile solo se l’intera area ne potrà godere, nell’ipotesi che le interferenze esterne si equilibrino o vengano meno.
La posizione geografica
La prima ragione dei guai che capitano a un paese risiede spesso nella sua collocazione geografica. La geografia, in effetti, è per molte nazioni un grave peso, e impedisce, in tutti i casi di questo genere, una vita regolare alle popolazioni che le abitano.
Nel mondo, infatti, vi sono infatti pochi paesi che hanno la fortuna di non essere mai stati oggetto di continue invasioni, pressioni o interferenze esterne, ma in questo caso si tratta di territori assolutamente decentrati e privi di risorse. La maggioranza, invece, ha dovuto spesso essere il teatro di lotte senza quartiere tra potenze, nazioni o gruppi contrapposti.
Queste intromissioni sono dovute, oltre alla posizione geografica di questi paesi-vittima rispetto a un obiettivo che una o più potenze intendono conseguire, anche alle risorse – acqua inclusa – di cui questi dispongono. L’esempio più facile da comprendere è quello dell’Italia settentrionale, durante la lotta secolare tra la Francia e l’Austria: dai tempi di Francesco I fino a quelli di Napoleone, gli eserciti francesi, per poter sconfiggere l’Austria, entrarono ogni volta nella Pianura Padana, talvolta attraverso i passi alpini o, più spesso, percorrendo la “corniche”, la litoranea che attraversa la Liguria. Quest’ultima strada era infatti percorribile tutto l’anno, a differenza dei percorsi montani, pur essendo vulnerabile alle offese dal mare.
Una volta arrivati nella Pianura padana, i Francesi trovavano in quelle terre fertili cibo sufficiente per le loro truppe, e potevano minacciare l’Austria di invasione dal sud, attraverso il Brennero, Tarvisio o la Carinzia; sul fronte opposto, gli Spagnoli prima e gli Austriaci poi vedevano invece la zona come ottimo terreno di manovra, da usare per combattere in territorio altrui, potendo cedere terreno senza rimpianti, se costretti alla ritirata, e sfruttare il Po ed i suoi affluenti, come linee di resistenza successive, per rallentare i progressi del nemico.
Qualora le cose fossero andate proprio male, essi potevano sempre attestarsi a difesa nella stretta striscia di terreno tra il lago di Garda e il Po, dove si erano da tempo premuniti, costruendo le fortezze difensive del “Quadrilatero”, Peschiera, Verona, Mantova e Legnago, difficili da superare ma impossibili da evitare.
Anche la Sicilia, che divide letteralmente in due il Mediterraneo, è stata nei secoli vittima di ripetuti tentativi di conquista, dato che dall’isola si controlla il passaggio principale tra il bacino di ponente e quello di levante: da questa posizione, infatti, si dominano i commerci in tempo di pace e si agevola, in caso di conflitto, la manovra offensiva alla potenza marittima che la possegga. Ai nostri tempi, l’importanza dell’isola è stata confermata dalla sua invasione alleata nel luglio 1943 e più tardi perché fu uno dei fattori per consentire all’Italia, paese sconfitto, di accedere fin dall’inizio alla NATO, le cui forze altrimenti non avrebbero avuto facile accesso al Mediterraneo Orientale.
Il Belgio si è trovato anch’esso in una situazione simile: durante le guerre tra Francia e i suoi nemici – l’Austria e la Prussia prima e la Germania dopo – quel territorio era l’unica via di ingresso agevole per questi ultimi in territorio francese, in quanto consentiva loro di evitare l’attraversamento a viva forza del fiume Reno, la cui ampiezza rendeva le difese avversarie quasi impenetrabili. In tempo di pace, poi, il Belgio godeva – e gode ancora oggi – dei diritti di transito delle merci tra la Francia e i porti olandesi e tedeschi e quindi era fonte di prosperità.
Già nel Medioevo, il possessore delle fortezze lungo questo percorso – che dalle Ardenne conduce prima a Sédan, in territorio francese, e poi a Parigi – acquisiva un’importanza e una ricchezza notevoli: visitate Buglione e il suo castello, nel pieno delle Ardenne, e scoprirete perché il suo signore, Goffredo, ricco e potente com’era diventato, grazie all’ubicazione del suo feudo, fosse stato messo a capo della Prima Crociata. Questo percorso fu poi seguito, nei secoli successivi, più volte: l’ultimo a percorrerlo in guerra fu Guderian con i suoi carri armati, nel maggio 1940!
Questi due esempi mostrano che i paesi attraversati da “Linee Strategiche” sono essenziali per una potenza che voglia ridurre alla ragione il suo avversario, ma anche costituiscono fonte di ricchezza, in tempo di pace, per i dazi e altri benefici ricavabili dal commercio di transito. Per questo tali paesi vengono chiamati “Zone Strategiche”, in quanto “il loro possesso conferisce a chi le domini un vantaggio strutturale” , sia per la condotta di un conflitto, sia per il controllo dei commerci.
Già questa situazione, in caso di conflitto, è foriera di lutti per le popolazioni locali, ma vi sono paesi in condizioni ancora peggiori! Infatti, le regioni attraversate da più “Linee Strategiche” aventi direzioni diverse, si trovano in guerra ancor più in pericolo, dato che esse sono dei veri e propri “Crocevia Strategici”. Mentre in tempo di pace i loro abitanti prosperano – quelle regioni sono infatti delle vie maestre del commercio internazionale – essi soffrono in realtà più frequentemente di altri, perché quasi ogni competizione tra le potenze coinvolge il loro paese.
La loro condizione, infatti, non migliora quasi mai, neanche per effetto di un’eventuale variazione degli equilibri regionali, dato che al mutare delle potenze egemoni non cambia la necessità, da parte di queste ultime, di controllare quelle zone: il vantaggio che queste conferiscono al possessore è infatti quello di poter agire in più direzioni, sia militarmente sia commercialmente.
Si tratta quindi di “Posizioni Centrali” – Mackinder le chiamerebbe “Perni” – che consentono al tempo stesso di proiettare potenza, di contenere un’offensiva nemica e di prosperare grazie ai dazi e ai commerci, in tempo di pace. La Siria e tutto il Vicino Oriente sono appunto – insieme all’Afghanistan, all’Oceano Indiano e, forse in futuro, l’oceano Artico – alcuni tra i principali crocevia strategici del mondo, in quanto consentono movimenti commerciali e proiezione di potenza tra est e ovest da una parte e tra nord e sud dall’altra.
Dopo l’epoca romana, noi Occidentali abbiamo utilizzato la prima delle due linee strategiche già nel Medioevo, per accedere alla “Via della Seta”; i Crociati – i Franchi, come venivano chiamati dai Musulmani – hanno fatto lo stesso durante le loro spedizioni. Questi avevano infatti capito che il posto migliore per impiantare in Oriente le loro basi avanzate, da cui proiettarsi in avanti nel continente, era la Siria.
Per mantenerne il possesso, avevano quindi avuto cura di fortificarne i due punti essenziali. Il primo era il cosiddetto “Krak dei Cavalieri”, un castello posto in posizione dominante, a metà strada tra Aleppo e Damasco, a 60 km circa da Hama, in grado di controllare il Passo di Homs, lo sbocco settentrionale della pianura della Beqaa.
Il secondo punto fortificato era la città di Tortosa, l’attuale Tartus, non troppo lontana dal Krak (era saggio rimanere a una distanza tale da potersi garantire un appoggio reciproco). A quel tempo il possesso di Tortosa era fondamentale per i Crociati per ben quattro motivi: anzitutto la città era uno dei porti per i collegamenti via mare con l’Occidente, poi era la base naturale per dominare il Mediterraneo orientale, oltre che un punto di accesso principale al Vicino Oriente.
Infine, Tortosa era il sostegno principale della linea di comunicazione dei Cristiani nel fornire loro il supporto logistico, ma era anche essenziale per la difesa, nel caso in cui essi fossero costretti ad arretrare, un po’ come fu Torres Vedras per Wellington, nel 1810. In questo Tortosa era – ed è – migliore di Latakia, separata com’era quest’ultima dall’entroterra, per la presenza delle paludi del fiume Oronte. Non a caso, fin dal 1183, Tortosa fu affidata ai Templari, mentre il Krak fu assegnato agli Ospedalieri ; questi erano infatti gli Ordini che disponevano dei guerrieri più forti fra tutti i Crociati. Le due posizioni furono infatti tenute fino all’ultimo, nel 1291, quando crollò il Regno di Gerusalemme.
Essendo padroni della costa, grazie all’efficace – anche se oltremodo costoso – appoggio da parte delle Repubbliche Marinare, i Crociati non avevano invece difficoltà lungo l’asse nord-sud, che passando vicino al litorale, collega l’Egitto con l’Anatolia, attraverso la Palestina, il Libano e la Siria; per sostenere le loro azioni offensive verso l’Egitto, i Crociati, comunque, l’avevano ben fortificato in vari punti.
Lungo questa linea strategica, infatti, vi erano anche altri punti costieri più a sud, il più importante dei quali era San Giovanni d’Acri, una città-fortezza costruita su uno stretto promontorio, e quindi difficilmente attaccabile da terra; quest’altra posizione, oggi parte dello Stato di Israele, era l’estremo opposto della linea strategica litoranea Egitto – Anatolia, oltre a essere un ulteriore punto di ingresso nel Medio Oriente dal mare, il più prossimo a Gerusalemme.
Dopo quell’epoca, la linea nord – sud fu molto sfruttata solo durante il XIX secolo, quando la potenza ottomana iniziò a mostrare i primi segni di cedimento, e l’Egitto diventò sempre più importante per gli Europei in lotta tra loro. La posizione di quest’ultimo lungo il percorso che portava a La Mecca e poi all’India lo aveva reso infatti sempre più prospero, come luogo di transito delle merci e dei pellegrini dall’oceano Indiano al Mediterraneo e viceversa, tanto che Napoleone convinse il Direttorio ad autorizzare la sfortunata spedizione in Egitto.
Quello che ci interessa di più è che Napoleone, per risollevarsi dalla perdita della flotta, si diresse verso nord, proprio lungo la litoranea, per conquistare – o almeno condizionare – l’Impero Ottomano. Il tentativo finì presto, arenatosi davanti a San Giovanni d’Acri per effetto della resistenza anglo-turca, ma questo dimostra quanto la linea nord-sud fosse stata vista dal Grande Corso in tutta la sua importanza, come la via di accesso più agevole per un’offensiva contro l’Anatolia.
Fu poi il turno dell’Egitto a utilizzare questa linea strategica, quando il suo reggitore, il Khedivé Mehmet Ali, entrò in conflitto con la Sublime Porta, alla ricerca di maggior potere ed influenza. In questo caso, grazie alla superiorità di forze egiziana, l’avanzata verso nord, condotta dal figlio del Khedivé, Ibrahim Pascia, procedette molto oltre rispetto al tentativo napoleonico e di conseguenza la Siria divenne ben presto un campo di battaglia.
Il sultano Mahmud II, che aveva rifiutato di considerare le richieste del suo sottoposto egiziano, fu sconfitto a Konya, poco oltre il confine tra la Siria e l’Anatolia, e dovette anche evacuare Kütahya nel febbraio 1833. Per non cedere alla violenza del suo sottoposto ribelle, il sultano, quindi, dovette ingoiare il suo orgoglio e chiedere il sostegno della Russia, passando in tal modo dalla padella nella brace.
Lo zar Nicola I fu rapido ad inviare le sue truppe e le sue navi ad Istanbul – facendo ciò egli realizzava un antico sogno della sua dinastia – ma la Francia e la Gran Bretagna reagirono velocemente e costrinsero l’Egitto e la Sublime Porta a trovare un accordo. Ibrahim Pascià, il vincitore sul campo, divenne governatore della Siria, della Cilicia e dell’Heggiaz (parte dell’attuale Arabia Saudita), mentre il padre, a parte la sua conferma a governatore dell’Egitto, accettò anche il dominio sull’isola di Creta.
Ma anche la Russia voleva la sua ricompensa. Prima di ritirare la sua flotta dal Bosforo, lo zar costrinse il Sultano a firmare il trattato di Hünkjar-Iskelessi, secondo cui gli Stretti Turchi venivano chiusi a tutte le navi da guerra che non appartenessero a Stati rivieraschi del Mar Nero. La questione degli Stretti era di nuovo aperta, dopo tanti secoli, e le diplomazie occidentali sarebbero state coinvolte per molti anni, in una successione di mosse e di contromosse, che finirono dopo più di un secolo, nel 1936, con la Convenzione di Montreux.
La lotta fra l’Egitto e la Sublime Porta non era però ancora finita. Mehmet Ali, oltre ad espandere la sua influenza, voleva conseguire la piena indipendenza dell’Egitto dalla Sublime Porta, mentre il Sultano, naturalmente, cercava vendetta. Trascorsero sei anni di una tregua piena di diffidenze, finché Mahmud II, profondamente irritato dal comportamento di Ibrahim Pascià a Damasco, che seguiva una politica “di concertazione con la popolazione della Siria, incoraggiandovi delle rivolte” contro di lui, decise di intervenire, non appena, grazie all’aiuto tedesco, pensò che il suo esercito fosse pronto.
Le sue truppe avanzarono verso la Siria, ma furono sconfitte a Nisibin (oggi Nusaybin), sempre al confine siro-turco, poco a sud di Diyarbakir, il 24 luglio 1839. Questa, fra l’altro, fu la prima esperienza di combattimento di un giovane ufficiale tedesco, assegnato all’esercito ottomano, di nome Helmuth Von Moltke, il futuro vincitore della guerra del 1870. La flotta ottomana, che avrebbe potuto giocare un ruolo-chiave, sostenendo dal mare l’avanzata delle truppe lungo la costa, non si comportò meglio, avendo deciso di arrendersi a tradimento nel porto di Alessandria.
Le potenze occidentali, con l’eccezione della Francia, si sentirono obbligate, a questo punto, a impedire che l’impero ottomano finisse in pezzi, ed unirono i loro sforzi. La loro mancanza di unanimità era dovuta al fatto che Parigi, in effetti, aveva rimpiazzato Londra nel cuore di Mehmet Ali, e ne godeva i frutti in termini di vantaggi commerciali.
Di conseguenza, quando la Gran Bretagna e l’Austria emanarono un ultimatum, ordinando al Khedivé di abbandonare le sue conquiste siriane e restituire la flotta ottomana alla Sublime Porta, “ci fu uno scoppio di entusiasmo guerriero nei viali (di Parigi), diretto specialmente contro l’Inghilterra. Per qualche tempo, un conflitto tra le due nazioni sembrò quasi inevitabile” .
Ma, in questa crisi, ambedue i governi mostrarono del buon senso. Una tale lotta per il Levante avrebbe comportato un confronto fra le due flotte, e purtroppo ambedue stavano decadendo per mancanza di fondi e di manutenzioni. La Francia esitò ad impegnarsi, e quindi una flotta britannico-austriaca poté dislocarsi nel Levante e attaccare le fortezze costiere che erano cadute in mano egiziana.
In pochi mesi tutte queste posizioni fortificate furono bloccate e caddero, con San Giovanni d’Acri per ultima, nonostante l’eroica resistenza della sua guarnigione; Ibrahim Pascia si ritrovò con l’esercito tagliato fuori dalle sue basi nella madrepatria. Di conseguenza, quando l’ultimatum anglo-austriaco fu consegnato nel luglio 1840 al Khedivé, questi fu costretto a negoziare, e a rinunciare sia al governatorato della Siria, sia alle sue rivendicazioni sull’Heggiaz; il trattato di Londra, nel luglio 1841 concesse comunque all’Egitto la sovranità su tutta la valle del Nilo, incluso il Sudan, in compenso della rinuncia alla Siria e all’Heggiaz, in modo da non alimentare altri revanscismi.
Passarono vari anni, e la Prima Guerra mondiale riportò di nuovo alla ribalta le linee strategiche del Levante. La lunga lotta tra l’esercito della Gran Bretagna e quello ottomano si svolse infatti lungo queste linee strategiche, che furono usate dal generale Allenby nella sua offensiva, nel 1918.
Ci erano infatti voluti tre anni prima che la Gran Bretagna, dopo aver tentato una serie di “scorciatoie” per piegare al più presto l’Impero Ottomano, finendo sconfitta e scornata a Gallipoli e in Iraq, capisse che l’unica via possibile era quella già seguita da altri in passato, lungo la costa del Vicino Oriente.
Per evitare sorprese lungo l’asse est-ovest – questa volta non vi erano pericoli da ponente, grazie al dominio alleato del mare, ma solo da est – il generale Allenby si premurò di assicurarsi nell’entroterra l’appoggio degli Arabi in rivolta, distaccando agenti britannici, il più famoso dei quali fu Lawrence d’Arabia.
In questo modo il generale riuscì a evitare sorprese dove le due linee si incrociavano, e precisamente in Siria; ma nel frattempo i suoi alleati, gli Arabi, gli scapparono di mano e il 30 settembre 1918 alzarono la loro bandiera sul municipio di Damasco, poche ore prima che le truppe britanniche entrassero in città, diventando di fatto i principali aspiranti al dominio occidentale della Siria.
Fu peraltro necessario acquietare i Drusi, timorosi di un dominio dei loro nemici storici, nonché organizzare un minimo di amministrazione e di mantenimento dell’ordine; questo fu fatto da Lawrence, tanto che due giorni dopo, quando il generale Allenby entrò a Damasco, egli la trovò calma e sotto controllo. A questo punto Allenby causò una seria crisi internazionale, quando “informò Feisal (uno dei figli dello sceicco della Mecca, Hussein) che era pronto a riconoscere il governo arabo del territorio nemico a est del Giordano, comprese Ma’an e Damasco” .
La crisi non era tutta colpa del generale: la promessa di Allenby riecheggiava, in effetti, un’improvvida dichiarazione che il governo di Londra, dimentico dell’accordo firmato due anni prima con la Francia tra Sykes e Picot con la Francia, aveva emanato l’11 giugno precedente, annunciando che “per quanto riguardava tutte le zone liberate dal dominio turco durante l’azione con gli Arabi da soli, esso riconosceva l’indipendenza completa e sovrana degli Arabi nei territori stessi e si impegnava a sostenere la loro lotta per la libertà”.
Naturalmente, la Francia fu punta sul vivo e, immediatamente, “affermò le sue pretese storiche sulla Siria” , che all’epoca includeva anche il Libano. Come ricorda un importante storico inglese, Liddel Hart, nel citare le motivazioni ufficiali di Parigi a sostegno delle rivendicazioni siriane, le pretese francesi “sulla Siria risalivano al Medioevo e si fondavano sui regni latini che l’ondata delle crociate aveva lasciato come relitti sulla costa levantina. Nel corso della guerra mondiale il fastidio per il fatto che un alleato si insediasse in quella terra ancestrale sembra sia stato analogo alla preoccupazione che l’invasione tedesca del loro territorio limitasse il contributo francese alla campagna contro la Turchia in Asia” . Questo, insieme agli altri trascorsi, rendevano Parigi poco disposta a scendere a compromessi.
Vi era quindi un problema: durante l’offensiva del generale Allenby, gli Arabi, sotto il principe Feisal, avevano validamente coperto il fianco destro delle forze britanniche, compiendo incursioni e fomentando rivolte che destabilizzarono tutta la logistica e i movimenti turchi. Ora, questi “con il focoso Lawrence, legato alla loro causa in fraternità di sangue, si erano stabiliti a Damasco e sognavano una Grande Arabia, che si estendesse da Alessandria ad Aden e da Gerusalemme a Baghdad” . Inutile dire che un tale Stato – a parte la sua intrinseca instabilità, stante la presenza di gruppi etnici diversi – sarebbe stato troppo potente per i gusti di Londra e Parigi, che quindi si accordarono per perseguire il loro disegno di suddivisione in più Stati dell’Impero Ottomano.
L’ascesa di Feisal al trono siriano fu quindi bloccata da Clemenceau, che si oppose alla presenza del principe alla conferenza di pace, e ottenne che la Siria passasse sotto l’influenza della Francia, malgrado una commissione alleata, cui partecipavano gli Americani, dopo una ricognizione nel Vicino Oriente, avesse concluso che “un mandato francese (sulla Siria) non sarebbe stato affatto accettabile” per le popolazioni locali. Per rafforzare la loro posizione, i Francesi espulsero Feisal dalla Siria, il 25 luglio 1920.
Nel fare questo, Parigi intendeva anche prevenire possibili iniziative da parte degli Stati Uniti, che erano schierati decisamente a favore dell’autodeterminazione dei paesi liberati dal giogo ottomano e avevano esercitato forti pressioni sul governo britannico, tanto da indurlo a fare la dichiarazione che Allenby aveva diffuso, al momento della vittoria.
Ma neanche Londra, pur avendo promesso a due diversi contendenti lo stesso territorio, avrebbe potuto insistere fino in fondo per l’autodeterminazione di quei territori: i suoi interessi erano infatti concentrati sul possesso della Mesopotamia, ricca di petrolio, e quindi la Gran Bretagna non poteva far altro che appoggiare il progetto di spartizione e le connesse rivendicazioni di Parigi.
A questo punto, bisogna fare un passo indietro e ricordare che le due potenze erano arrivate per stadi successivi a questa determinazione. Per tutto il XIX secolo – e lo abbiamo visto – queste avevano infatti cercato di tenere in vita il traballante Impero, nonostante esso fosse stato una fonte di continuo pericolo per l’Occidente nei secoli passati, approfittando per tenerlo sotto il loro controllo finanziario
Solo dopo il colpo di Stato dei “Giovani Turchi”, che fece venir meno i lauti guadagni per gli Occidentali, Edoardo VII di Gran Bretagna e lo zar Nicola II si misero d’accordo sull’opportunità di “spacchettare” l’Impero, suddividendolo in un numero di Stati di dimensioni equivalenti.
Questo infatti avrebbe consentito alla naturale litigiosità della “Galassia Islamica” di creare tali e tante dinamiche interne che gli abitanti di tali Stati non avrebbero avuto né il tempo né la voglia per dare addosso di nuovo all’Occidente. In pratica, il piano che poi fu realizzato nei suoi dettagli da Sykes e da Picot, accettava che in una situazione di equilibrio regionale l’instabilità facesse il suo corso, essendo questa un male minore rispetto a un Islam schierato contro il mondo cristiano.
L’Instabilità intrinseca dei Crocevia Strategici
Gli autori di questo esercizio sapevano bene il perché di questa instabilità, la seconda caratteristica di ogni “Crocevia Strategico”. Ognuno di essi, infatti, diventa nel tempo un crogiolo di etnie, dato che, fin dai tempi più remoti, i vari gruppi etnici vi hanno inviato dei nuclei di propri connazionali, con il compito di controllare il commercio che passava attraverso l’area, o almeno per parteciparvi.
Contemporaneamente, dopo ogni conquista, il governante della potenza vincitrice vi ha sempre dislocato i suoi fidi guerrieri – o i suoi mercenari – facendo in modo che vi si stabilissero, integrandosi con la popolazione. Questo infatti è sempre stato, fin dal tempo antico, il modo migliore per presidiare una zona strategica, senza dovervi dislocare in permanenza truppe di occupazione e navi.
Basta leggere, nella Bibbia, prima l’episodio della Torre di Babele e poi il passo degli Atti degli Apostoli che parla della Pentecoste, per capire quanto frammentata fosse già allora la composizione etnica del Vicino Oriente: Saladino era un Curdo, molti altri leader militari islamici del Medioevo erano Turchi, e così via.
Poiché varie etnie conviventi nella stessa zona si comportano come gli inquilini di un condominio, in fatto di litigi, nei “Crocevia Strategici” le lotte intestine sono sempre esistite. Le comunità spesso si rinserrano, rifiutando il dialogo e i rapporti con le altre, per cui l’instabilità e le lotte di potere sono endemiche, anche quando queste sono tenute a bada o costrette a svolgersi sottobanco.
Ovviamente, una tale situazione si presta a essere sfruttata dalle grandi potenze per i loro fini, mediante il sostegno all’una o all’altra fazione. Nel fare ciò, esse dimenticano che, quando si innesca in queste zone una spirale del tipo “tutti contro tutti”, la violenza arriva facilmente al culmine, proprio perché ogni componente non cerca solo di sopravvivere, ma tenta a ogni occasione di liberarsi delle altre.
Ma le tribolazioni per gli abitanti non finiscono con la fine di una guerra civile: una volta assunto il controllo di uno di questi “Crocevia Strategici” la potenza vincitrice si trova costretta a ridurre il livello di instabilità, e spesso ricorre a mezzi drastici e crudeli per ottenere questo.
Sempre leggendo la Bibbia, scopriamo infatti che le superpotenze dominanti nel Vicino Oriente, nelle varie epoche, hanno spesso cercato di ridurre il numero delle etnie presenti nei “Crocevia Strategici” conquistati, proprio per ridurre gli sforzi economici e militari conseguenti al mantenimento dell’ordine. La soluzione era la “Pulizia Etnica”, che consisteva nel genocidio o, nei casi meno violenti, nella deportazione di interi popoli, una prassi praticata da Nabuccodonosor, dai Faraoni e dai Romani; in altre parti del mondo, i Capi africani del XIX secolo, mediante la tratta degli schiavi, e infine da Stalin, nel XX secolo, fecero lo stesso. Un altro mezzo, usato ovunque, è anche stato quello di “incoraggiare” la fuga di una o più etnie, per lo stesso motivo.
L’Occidente, nel XX secolo, tentò invece nel Vicino Oriente un’altra soluzione, visto che le opinioni pubbliche rifuggivano ormai giustamente da questi mezzi incivili, e cercò di sfruttare l’instabilità tra le varie etnie della regione per mantenere deboli gli Stati – di dimensioni relativamente contenute – in cui l’Impero Ottomano sarebbe stato suddiviso, a giustificazione dei mandati internazionali che sarebbero stati decisi.
Per questo Londra non volle soddisfare appieno le rivendicazioni degli Arabi e impose la spartizione. Quello che le cancellerie non considerarono era che, togliendo di mezzo il “Grande Califfo di tutto l’Islam”, il Sultano di Istanbul, si dava la stura a un’altra pericolosa spirale di tensione, questa volta tra le varie confessioni islamiche.
Il fatto che la Sunna e la Shia siano arrivate, oggi, ad una guerra senza limiti su scala mondiale è indicativo di quanto incompleta fosse la valutazione fatta all’epoca, che non teneva conto dei “fattori immateriali” del problema, come la fede religiosa, che soddisfa il bisogno di una identità aggregante dei principali gruppi etnici, malgrado gli eventi del 1860 avrebbero dovuto allertare i governi su questa realtà.
In questo modo si arrivò alla creazione degli Stati del Vicino Oriente, sotto mandato francese (Siria e Libano) e britannico (Transgiordania, Iraq e Palestina), tutti popolati da più etnie e confessioni. La Conferenza di Sanremo sanzionò questa spartizione, profittando della debolezza interna degli Stati Uniti.
Il primo effetto di questo approccio, che era stato necessario imporre con la forza, contro le aspirazioni degli interessati, fu che si rinforzò il gruppo più estremista degli Arabi, i Wahabiti, il cui capo, Ibn Saud, mirava a rovesciare il padre di Feisal, Hussein, come Guardiano dei Luoghi Santi dell’Islam, Mecca e Medina, e ci riuscì qualche anno dopo.
Gli stessi Francesi, una volta occupata la Siria, “ebbero motivo di pentirsi di aver rovesciato (Feisal), perché si invischiarono in problemi molto più costosi e prolungati di quelli incontrati dai Britannici in Iraq” . Neanche a questi ultimi, però, furono risparmiate situazioni difficili, come nel 1941, quando i Britannici si dovettero rinchiudere in una base aerea irachena, per effetto del nazionalismo di quel popolo, oppure nel 1952, quando in Iran si ebbe la rivolta di Mossadeq, ma nel complesso il calcolo si rivelò strategicamente corretto, e non vi furono, per molti anni, pericoli per l’Occidente.
La Siria e gli attori in campo
In Siria, un antico proverbio dice: “quando fu creato il mondo, l’intelligenza dichiarò che sarebbe andata in Siria, e lo spirito di discordia si intromise, dicendo che sarebbe andato con lei” . Dominata nei secoli da varie potenze, succedutesi le une alle altre, il paese è un caleidoscopio di culture, religioni ed etnie, tanto che anche “la fede, lì, è un partito. Prima di nascere, si è scelti. È impossibile sottrarvisi: nel Medio Oriente, le culture vi definiscono altrettanto nettamente che le caste in India” .
Ma nessuno scoppio di odio razziale in quello sfortunato paese è stato mai esente dall’interferenza delle grandi potenze. Questo è vero anche per una tra le più sanguinose rese dei conti tra etnie, quella del 1860, che fu provocata da una comunità espulsa secoli prima dall’Egitto, i Drusi. Questi erano sostenuti dalla Sublime Porta, che voleva liberarsi dei Cristiani, ma anche dalla Gran Bretagna, tanto che un capo maronita aveva scritto: “i nostri problemi sono diventati quelli della Gran Bretagna e della Francia. Se un uomo picchia un altro, l’incidente diventa un affare anglo-francese e vi potrebbe essere persino una tensione tra i due paesi se una tazza di caffè fosse rovesciata in terra” .
Quando, in quell’anno, la Sublime Porta diede via libera ai Drusi per massacrare i Cristiani, fu necessario attendere che la strage – iniziata ai primi di giugno – assumesse dimensioni spaventose prima che le due potenze, fino ad allora rivali, concordassero di intervenire per riportare la pace. Solo il 3 agosto si riunirono infatti gli ambasciatori delle cinque potenze europee a Parigi, e Londra non poté più bloccare l’intervento, di fronte alle notizie di quelle stragi, anche se lo accettò con “notevole ripugnanza” .
Come si vede, il gioco della competizione tra potenze aveva finito per strumentalizzare gli odi inter-etnici, e i vari attori si erano decisi a intervenire per fermare i massacri solo quando questo avevano ormai raggiunto dimensioni apocalittiche, come raccontarono i soccorritori dei cristiani d’Oriente.
L’unico gesto di generosità, nei due mesi in cui le potenze litigavano anziché fermare l’eccidio, fomentato da Istanbul, era venuto da una personalità del mondo islamico, il capo della resistenza algerina all’invasione francese, Abd El Khader, costretto all’esilio a Damasco nel 1845: egli infatti si era interposto con i suoi seguaci tra i Drusi e le loro vittime, salvando un gran numero di Cristiani. Per questo egli divenne l’unico nemico giurato della Francia a essere decorato con la “Légion d’Honneur”!
Venne poi il periodo del Mandato, dal 1920 al 1946, in cui i Francesi riuscirono a inimicarsi tutte le etnie, tanto da finire cacciati dalla regione; la fine della Seconda Guerra mondiale portò infatti all’indipendenza della Siria, che da allora ha avuto a lungo governi instabili, e ha subito ben tredici colpi di Stato, fino a quello che, nel 1970, ha portato al potere la famiglia Asad.
Il fatto che ora sia implosa, e che si siano messe di mezzo le varie potenze, con alcune di loro tese a impedire ad altre di intervenire, non è un fatto sorprendente, visto quanto è stato detto finora. Non meraviglia neanche la grande preoccupazione della Turchia di fronte all’attivismo dei Curdi di Siria, fin troppo appoggiati dal governo autonomo dell’Iraq del nord: questi fatti dimostrano solo con quale forza la geografia eserciti la sua azione attraverso i secoli.
Questa volta, però, l’instabilità in Siria non viene sfruttata solo da Stati terzi – Russia, Cina, l’Occidente, l’Iran e la Turchia – ma anche da potenti gruppi non statuali. In questi anni, la lotta per contenere la cosiddetta “Espansione Sciita” ha portato la “Galassia sunnita”, capeggiata dalle sue componenti più estreme, come i Wahabiti, a scatenare una guerra senza quartiere in tutte le aree in cui ambedue queste grandi correnti dell’Islam convivono.
Dopo quanto avvenuto tra le due comunità in Pakistan, in Iraq, in Libano e in Bahrein, il mondo sunnita è arrivato a far convergere tutto il suo peso economico e umano per risolvere la crisi siriana a proprio favore, tanto che persino al Qaeda – finora dedito a colpire l’Occidente – ha concentrato gli sforzi per far trionfare la causa sunnita.
Considerazioni
A questo punto, prima di concludere, è bene fare alcune considerazioni, dopo questo lungo excursus storico e geografico. Anzitutto, bisogna dire che la Siria è condannata a essere oggetto della volontà di dominio, diretto o indiretto, delle potenze mondiali: non è un caso l’interesse della Turchia, ma anche della Russia – che ha affittato la base di Tartus – e della Cina a esercitare un’influenza in quella disgraziata nazione, in concorrenza con le nazioni dell’Occidente.
Queste, come nel passato, cercano di sfruttare – anche se con scarso successo – le componenti forti, all’interno dell’Islam, che hanno scelto la Siria come terreno di scontro, e precisamente la “Galassia Sunnita” contro quella Sciita, ma anche la tensione tra il mondo integralista e quello laico e moderato – che stava prevalendo dopo una lotta iniziata da Atatürk e ripresa da Nasser, Gheddafi e Saddam Hussein a partire dal 1956 – e infine l’indipendentismo curdo contro tutti gli altri. Gli altri gruppi etnici presenti nel paese sono altrettanto coinvolti, dato che da tempo ognuno di loro si sente parte attiva dell’una o dell’altra fazione.
A questo punto, bisogna ricordare il problema di fondo, che può portare a sviluppi fuori del nostro controllo e contrari ai nostri interessi. La violenza, infatti, ha raggiunto, come in casi simili del passato, livelli estremi, creando una situazione di tensione a livello mondiale. Questo significa che, anche qualora si riuscisse a fermare la tragedia, una soluzione sarebbe difficile da mantenere per tempi lunghi, e altre stragi potrebbero accadere, in Siria o altrove, per effetto dell’estrema radicalizzazione delle parti.
Mentre però la maggior parte degli attori internazionali ha chiari i propri obiettivi, e li persegue con freddo cinismo, l’atteggiamento europeo è piuttosto schizofrenico: da un lato i nostri governi sarebbero ancora favorevoli a una suddivisione della “Galassia Islamica” in più Stati che si bilancino, annullandosi a vicenda, dall’altro essi si trovano in contrasto con la posizione delle nostre opinioni pubbliche, da sempre favorevoli all’autodeterminazione.
In questo, l’opinione corrente si avvicina alla posizione sempre sostenuta da Washington che già nel 1919, come abbiamo visto, aveva insistito per l’autodeterminazione, anche prima dei negoziati del 1919 a Parigi; all’epoca, il rapporto di forze era favorevole agli Europei, per cui prevalse la spartizione, sia pure sotto il mantello dei Mandati della Società delle Nazioni.
Ora che questo rapporto si è rovesciato, ma nel frattempo è stato anche possibile notare quali pericoli presenti l’autodeterminazione all’interno della “Galassia Islamica” che – essendo acefala – è priva di moderatori, dobbiamo metterci d’accordo, tra Europei e Americani, su quale linea di azione seguire. Va anche notato che, curiosamente, la Turchia, la Russia e la Cina appaiono ancora più favorevoli di noi al mantenimento di quella che potrebbe definirsi la “situazione Sykes – Picot”, cioè la spartizione, pur non riuscendo a influenzare le fazioni islamiche in feroce lotta tra loro.
Nessuna soluzione geopolitica è priva di rischi e di inconvenienti. L’importante è di sceglierne una e perseguirla. Non decidere è peggio: se infatti i paesi dell’Occidente non si mettono d’accordo su quale Islam vogliono, si finirà come Londra, alla fine della Prima Guerra mondiale, per promettere troppo ai molti contendenti, senza poi poter mantenere alcunché.
Questa divergenza di opinioni viene complicata dalla debolezza economica e militare dell’Occidente, ormai palesemente impossibilitato a controllare i “Crocevia Strategici” per mancanza di forze: i nostri paesi hanno fallito venti anni fa in Libano, che non è altro che la miniatura della Siria, si stanno ritirando dall’Afghanistan, non riescono a controllare l’oceano Indiano e giustamente si preoccupano per il rischio di tensioni, tra gli Stati dell’emisfero nord, per il controllo dell’Artico.
Andare a “portare la pace”, interponendosi tra le numerose fazioni in lotta tra di loro in Siria, è quindi un’impresa al di sopra delle nostre forze: le stime dei giornali, che ritengono adeguato un contingente di 75.000 militari, sono palesemente irrealistiche, essendo gravemente errate per difetto.
L’unica possibilità è quella di tentare la stabilizzazione della Siria perseguendo, come nel 1860, un obbiettivo comune a tutte le potenze interessate, Turchia, Russia e Cina comprese, a condizione, questa volta, che esso sia anche condiviso dalla fazione o dalle fazioni maggioritarie della “Galassia Islamica”. Ma qui viene spontanea la considerazione finale: quanto ci conviene prendere le parti di una della componenti di questa Galassia, piuttosto che di un’altra?
Conclusioni
La Siria, per la sua posizione geografica di “Crocevia Strategico”, è stata sempre – e continuerà a esserlo nel futuro – oggetto di eccessive “attenzioni” da parte delle potenze mondiali, siano esse statuali o di altro tipo. Questo, aggiunto alla sua instabilità intrinseca, frutto della eterogeneità delle popolazioni che nel tempo vi si sono stabilite, rende il problema del raggiungimento di un equilibrio interno estremamente difficile.
Nessuna soluzione al problema siriano può quindi essere il prodotto di iniziative unilaterali. Solo quando un accordo generale sul suo assetto sarà raggiunto tra tutti gli attori in campo, la Siria troverà pace, almeno per qualche decennio, salvo poi a ritrovarsi in una situazione precaria al variare degli equilibri geostrategici mondiali.
Anche se l’Europa è il più debole di tutti gli attori esterni, sia economicamente sia militarmente, essa ha acquisito, negli ultimi anni, una capacità di agevolare e fare da garante ad accordi anche apparentemente impossibili, come nei casi del Libano e della Georgia, proprio grazie alla sua debolezza, che ha agito come garanzia di imparzialità, nelle sue mediazioni. Anche nel caso della Siria, quindi, il nostro continente ha un ruolo da svolgere, sia pure con pazienza, perseveranza e umiltà.