Affari Esteri, n. 176, primavera 2016L’incidenza statistica, già da tempo elevata, e la letalità del terrorismo contemporaneo, riconducibile alle varie matrici ideologiche da cui sfocia, rispecchiano un notevole incremento a livello globale nel corso di quest’ultimo decennio. 11.023 attentati commessi nel 2005 avevano causato 14.482 morti e 24.795 feriti. A loro volta, le statistiche per l’anno 2014 indicano 13.463 attentati con 32.727 morti e 34.791 feriti.
Secondo quanto riportato nel 2015 dal Dipartimento di Stato statunitense nella relazione annuale in materia, operano sullo scenario internazionale 59 “organizzazioni terroristiche straniere” (foreign terrorist organizations). Dalla relativa elencazione emergono tre categorie con fini rispettivamente politico-religiosi, etno-nazionalisti e marxisti-leninisti. La prima categoria, la quale raccoglie oltre due terzi del totale, abbraccia 42 aggregazioni, la seconda 10 e la terza sette.[1]
Va subito osservato che la natura stessa del terrorismo, impostato su strutture e dinamiche clandestine, non permette un’illustrazione esauriente e definitiva degli sviluppi del fenomeno e, parallelamente, ne complica il contrasto.
I problemi di monitoraggio e le sfide analitiche includono il sorgere di nuove aggregazioni sia spontaneamente sia a seguito di scissioni; le trasformazioni denominative nel corso del tempo; la rivendicazione di attentati dalla stessa aggregazione sotto plurime “sigle” di comodo; l’apparizione di aggregazioni con fini senza precedenti storici; l’assorbimento di alcune aggregazioni da parte di altre; il fattore imitativo accompagnato dalla costituzione di gruppuscoli effimeri comunque letali; l’apparente esaurimento di determinate aggregazioni seguito da tentativi di rivitalizzazione; mutevoli alleanze o forme di collaborazione tra aggregazioni ideologicamente affini; lo sfruttamento terroristico del progresso tecnologico a fini propagandistici e operativi.
Tuttavia, la relazione del Dipartimento di Stato – dichiaratamente concentrata su aggregazioni straniere e contemporaneamente priva di riferimenti a congreghe altrettanto terroristiche con mire particolari quali, paradossalmente, l’asserita tutela della vita, della natura o dei diritti umani – offre un contributo valido per la disamina dell’andamento del terrorismo contemporaneo.
Come dettagliatamente corroborato da analisi specialistiche di diversa provenienza,[2] la principale minaccia terroristica è posta in questo frangente storico dalla matrice politico-religiosa, alla quale cronisti e saggisti sovente ed impropriamente attribuiscono l’etichetta di “terrorismo religioso”. Quando giustamente concepita come fede, la religione non è altro che il rapporto vissuto dal credente con la sua percezione del Creatore. Invece, se praticata come ideologia ed accompagnata da militanza aggressiva e sopraffazione, la proiezione religiosa o pseudo-religiosa sconfina fatalmente nel regno della politica. Pertanto, il terrorismo risalente a questa matrice può unicamente essere classificato come un fenomeno avente fini politico-religiosi.
Delle 42 aggregazioni di stampo politico-religioso riportate nella relazione statunitense, solo una, Kahane Chai (Kahane Vive, dal nome del suo defunto ispiratore) è di matrice estremista ebraica. Creata all’inizio degli Anni Novanta, è protesa a ricostituire gli antichi confini biblici d’Israele ed imporre l’osservanza talmudica. Un’altra, Aum Shinrikyo (Verità Suprema) in esistenza dal 1987 e vagamente imbevuta di spiritualità orientaleggiante, rispecchia caratteri sostanzialmente settari ed è presente in Giappone e Russia.
Le rimanenti 40, ovvero la quasi totalità, sostengono di perseguire fini islamici pur distaccandosi profondamente dai principi religiosi in nome dei quali asseriscono di agire. Di queste, 39 si dichiarano di osservanza sunnita ed una, il libanese Hizballah o Partito di Dio, è di affiliazione sciita; 15 hanno origine mediorientale, sette magrebina/nord africana, tre sub-sahariana e 15 sud asiatica; molteplici – fra cui risaltano Hizballah, al-Qaida (La Base) e Stato Islamico (generalmente riportato con l’acronimo inglese ISIS o quello arabo Daesh) – dispongono di presenze e/o capacità operative regionali o a raggio intercontinentale. La più longeva, Jihad (Guerra Santa) Islamica Palestinese, risale agli Anni Settanta. Le più recenti sono sorte nel 2011 e 2012.
Dagli Anni Novanta e particolarmente a seguito dei noti attentati consumati a New York e Washington l’11 settembre 2001, ha a lungo primeggiato al-Qaida con la sua rete, le cui componenti intatte o residue si trovano in Yemen, Somalia, Africa settentrionale, Siria ed Asia meridionale. Nonostante l’eliminazione fisica, nel 2011, di Osama bin Laden, figura carismatica ed emblematica, ed i pregressi e successivi indebolimenti subiti, al-Qaida ed aggregazioni ad essa collegate – fra le più recenti al-Nusrah (Fronte della Vittoria), sorta in Siria nel 2011 – hanno esibito capacità di resilienza, come evidenziato dal fatto che l’EUROPOL considera al-Qaida un attore con cui dover contendere tuttora.[3]
Oggi il sedicente Stato Islamico, stanziato in Iraq e Siria e con appendici altrove, particolarmente in Libia, costituisce “la minaccia terroristica preminente”, come definita dal Direttore dell’Intelligence Nazionale degli Stati Uniti.[4] A sua volta, il Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite, con Risoluzione 2249 del dicembre 2015, lo ha qualificato come minaccia senza precedenti nei confronti della pace e della sicurezza internazionale.[5]
Questa aggregazione, implacabilmente anti-sciita e anti-occidentale, ambisce a proiettarsi quale embrione di un impero islamico globale, imporre sull’ummah – ossia l’intera comunità mussulmana – un’ideologia islamica totalizzante di stampo estremista salafita-takfiri – ossia il rifiuto di ogni innovazione rispetto ai precetti e insegnamenti risalenti ai tempi di Maometto e l’accusa di apostasia nei confronti dei dissidenti considerati alla stregua di infedeli – e annientare gli accusati di apostasia.
L’auto-proclamato Stato Islamico trae le sue origini da al-Tawhid wal Jihad (Monoteismo e Guerra Santa), sorto nel 2003 in Iraq, per poi rinominarsi l’anno successivo al-Qaida in Iraq. Nel 2006 assume il nome di Stato Islamico dell’Iraq. Nel 2013 si allontana da al-Qaida e, con l’espansione operativa in Siria, si trasforma in Stato Islamico di Iraq e del Levante (ISIL), riportato come Stato Islamico di Iraq e al-Sham o Stato Islamico di Iraq e Siria, entrambi riducibili all’acronimo ISIS. Il 29 giugno 2014, a seguito del consolidamento territoriale in Iraq nordoccidentale e Siria orientale, l’ISIL/ISIS proclama la ricostituzione del califfato dichiarandosi tout court Stato Islamico e il mese seguente Abu Bakr al-Baghdadi, suo capo, assume il titolo e nome di Califfo Ibrahim e pretende contemporaneamente la fedeltà dei mussulmani ovunque presenti.
Contrariamente ad al-Qaida, lo Stato Islamico è riuscito nel corso delle proprie trasformazioni denominative a transitare per i vari stadi dello spettro potenzialmente progressivo della conflittualità non convenzionale: agitazione sovversiva, terrorismo, insorgenza, guerra civile e rivoluzione, quest’ultimo stadio per ora raggiunto dallo Stato Islamico nei territori iracheno-siriani che esso controlla con il ricorso all’imposizione, da non confondersi con il principio giuridico della sovranità nazionale.
Nell’avocare pretestuosamente un legittimo imperio, lo Stato Islamico si è dato una struttura, configurabile come un “apparato pseudo-istituzionale”,[6] composta dalla riesumata figura del califfo e da vari organi funzionali centrali e provinciali con capitale a Raqqa, città siriana ex capoluogo del califfato abbasida dal 796 al 809 d.C. e pertanto colma di simbolismo. Il controllo del territorio si estende alle risorse umane e materiali, il che permette allo Stato Islamico di autofinanziarsi, fra l’altro, con la tassazione e il contrabbando del petrolio e di beni archeologici, quest’ultimi da esso considerati contaminati dal peccato.
Lo Stato Islamico, il quale dispone di sofisticata perizia mediatica multilingue, ha altresì dimostrato la capacità di attirare in numeri senza precedenti cosiddetti “combattenti stranieri” nelle sue fila. Si calcola che dal 2012 ne siano accorsi in Siria più di 36.500 provenienti da più di 100 Paesi, inclusi almeno 6.600 da quelli occidentali.[7] Dall’Europa sarebbero giunti più di 5.000, fra cui 1.700 dalla Francia, 760 dalla Germania e Regno Unito ciascuno, 470 dal Belgio, 300 rispettivamente dall’Austria e Svezia, 220 dall’Olanda, 133 dalla Spagna, 125 dalla Danimarca e 87 dall’Italia.[8] Dal Nord America la cifra riguarderebbe 280 persone.[9] Il problema è poi aggravato dai rischi posti dal rientro dei “combattenti stranieri” nei Paesi di provenienza in quanto capaci di compiere aggressioni dirette o fornire sostegno avvalendosi dell’esperienza e contatti maturati.
Inoltre, aggregazioni terroristiche di natura islamica radicale presenti in varie aree geopolitiche hanno dichiarato fedeltà allo Stato Islamico. Si annoverano, fra queste, Ansar Bayt al-Maqdis in Egitto, Soldati del Califfato in Algeria, Ansar al-Sharia in Bengasi (Libia), Boko Haram in Nigeria e Jundallah in Pakistan.
Lo Stato Islamico ha ripetutamente minacciato diversi Paesi occidentali con specifici riferimenti a Roma, obiettivo tanto simbolico dell’Occidente quanto materialmente appetibile nel calcolo terroristico. Sotto questo aspetto, pur essendo in concorrenza tra loro, lo Stato Islamico e al-Qaida rispecchiano unità d’intenti. Infatti, nel dicembre del 2015 Ayman al-Zawahiri, successore di Osama bin Laden, ha dichiarato: “ […] dobbiamo portare la battaglia alla patria del nemico, specialmente l’Europa e l’America, perché loro sono i capi dell’attuale campagna crociata. Debbono essere uccisi, proprio come loro uccidono, e feriti, proprio come loro feriscono, e bombardati, proprio come loro bombardano, e fatti piangere, resi orfani e vedove, proprio come loro fanno piangere gli altri e li rendono orfani e vedove”.[10]
Al di là dalle loro aree d’insediamento, entrambi al-Qaida e lo Stato Islamico fungono non di meno da istigatori e ispiratori per individui o gruppi in preda alla loro propaganda e attratti dal modus operandi terroristico. Lo Stato Islamico ha significativamente indicato metodologie di facile applicazione a seguaci e imitatori, ovunque presenti, per colpire gli “infedeli”. Ad esempio: “Se non avete una pistola, investiteli con la vostra macchina”.[11] L’EUROPOL ha confermato che lo Stato Islamico delinea una strategia generale, lasciando ampia libertà di iniziativa tattica secondo le circostanze locali e le capacità operative di elementi proclivi.[12]
Il “jihadismo” o radicalismo islamico, fenomeno più vasto delle singole aggregazioni politico-religiose che lo praticano, ha fatto proseliti anche fra cittadini occidentali privi di vincoli di famiglia o di altri pregressi legami con l’Islam. Questi convertiti non vanno confusi con radicali islamici dediti al terrorismo transnazionale direttamente immigrati in Paesi di fede non mussulmana o con islamici di estrazione straniera non integrati e non acculturati nella società occidentale. Da notare che la conversione avviene anche direttamente all’Islam “politico” senza passare per l’Islam “religioso”. I convertiti europei includono britannici, francesi, belgi, tedeschi e italiani.[13] Per quanto riguarda gli Stati Uniti, risulta che la maggiore minaccia proviene appunto dai terroristi islamici sunniti homegrown, ovvero radicalizzati all’interno di quel Paese.[14]
Istruttivi aspetti dell’attuale e prospettabile pericolo posto dal “jihadsmo” sono illustrati da recentissimi attentati tratti dalla casistica europea e statunitense.
Pur costituendo sin dagli Anni Ottanta del secolo scorso un teatro operativo per intenti terroristici d’impostazione radicale islamica, il cui culmine era stato raggiunto con i sanguinosi ed indiscriminati attentati contro il trasporto pubblico a Madrid nel 2004 (191 morti) e a Londra nel 2005 (52 morti), l’Europa è stata sottoposta nel 2015 ad inquietanti sviluppi caratterizzati dall’incremento di ritmo e determinazione, nonché dalla maggiore complementarietà delle dinamiche, rispetto al passato. Risaltano i seguenti episodi.
• 7 gennaio 2015. Parigi. I fratelli Said e Chérif Kouachi – nati in Francia, di origine algerina e addestrati nello Yemen – penetrano e attaccano con armi automatiche, durante una riunione di redazione, la sede del giornale satirico Charlie Hebdo per vendicare la pubblicazione di vignette su Maometto. Uccidono 12 persone, fra cui il direttore Stéphane Charbonnier. L’attentato viene rivendicato dall’affiliata yemenita di al-Qaida.
• 8 gennaio 2015. Montrouge (Francia).Amedy Coulibaly – nato in Francia, di origine maliana e convertito all’Islam – uccide con arma da fuoco una vigilessa
• 9 gennaio 2015. Parigi. Lo stesso Amedy Coulibaly irrompe con arma da fuoco in un supermercato ebraico a Porte de Vincennes e uccide quattro dei 20 ostaggi. Questo personaggio aveva giurato fedeltà allo Stato Islamico.
• 15 gennaio 2015. Verviers (Belgio).Sono uccisi dalla polizia in un conflitto a fuoco due di tre “jihadisti” tornati dalla Siria che pianificavano attentati su vasta scala. Facevano parte di una rete di sostegno che, fra l’altro, avrebbe appoggiato il predetto Amedy Coulibaly.
• 3 febbraio 2015. Nizza. Il “jihadista” Moussa Coulibaly (cognome ricorrente), maliano di nascita, ferisce con arma da taglio tre militari di guardia ad una struttura ebraica.
• 3 febbraio 2015. Internet.Divulgazione di un documento di oltre 100 pagine dal titolo The Islamic State 2015 quale “chiamata alle armi” da parte del sedicente Stato Islamico per la conquista dell’Europa.Nel documento risalta la cartina europea con l’Italia e Roma cerchiate in rosso.
• 14/15 febbraio 2015. Copenhagen.Nel pomeriggiodel 14, Omar Abdel Hamid el Hussein, nato e cresciuto in Danimarca, entra sparando nel caffè Krudttonden, dove si teneva un convegno su “Arte, blasfemia e libertà di espressione”, uccide il regista danese Finn Norgaard e ferisce altre tre persone. L’obiettivo era il disegnatore svedese Lars Vilks, autore di vignette su Maometto. Nella notte del 15, lo stesso aggressore attacca una sinagoga durante una festa ed uccide il guardiano, il cui intervento previene altri omicidi. L’aggressore viene successivamente ucciso in uno scontro a fuoco con la polizia.
• 26 giugno 2015. Saint-Quentin (Francia).Yassin Salhi – nato in Francia da padre algerino e madre marocchina e già “combattente” in Siria nei ranghi dello Stato Islamico – uccide il proprio datore di lavoro, ne attacca la testa al cancello con una catena attorno al collo e poi fallisce nel tentativo di far esplodere con modalità suicida lo stabilimento chimico Air Products con 40 dipendenti all’interno. Secondo gli investigatori si tratterebbe di “azione di tipo ibrido” dati i cattivi rapporti con il datore di lavoro e la contemporanea frequentazione con elementi “jihadisti”.
• 21 agosto 2015. Pas-de-Calais (Francia).Ayoub El Khazzani – nato in Marocco, già dimorante in Spagna e con legami “jihadisti” – viene bloccato sul TAV Thalys da quattro passeggeri (tre americani, due dei quali militari, e un informatico inglese) mentre tentava, munito di fucile mitragliatore, pistola e coltello, di compiere una stage ferroviaria.
• 13 novembre 2015. Parigi. Una serie di attacchi coordinati, perpetrati con armi automatiche e modalità parzialmente suicide da tre gruppi (ciascuno composto da altrettanti uomini) contro uno stadio, un teatro, due bar e due ristoranti, causano la morte di 129 persone e il ferimento di altre 352. Dei nove aggressori: otto deceduti quali attentatori suicidi muniti di cintura esplosiva o abbattuti dalla polizia durante scontri a fuoco; uno, Salah Abdeslam – di origine marocchina e naturalizzato belga – catturato; sei di nazionalità francese e i rimanenti tre di nazionalità rispettivamente belga, siriana e ignota; tre con residenza in Francia e quattro in Belgio; tutti reduci da soggiorni effettivi o, per via indiziaria, presunti in Siria.[15]
Questi episodi europei comprovano la capacità “jihadista” di creare e avvalersi di collegamenti operativi fra i propri accoliti residenti in diversi Paesi del continente; di applicare quanto recepito dall’addestramento ed esperienze in aree extra-europee; di colpire bersagli prescelti in modo mirato e non unicamente indiscriminato; di eseguire attacchi coordinati; di operare a distanza ravvicinata con armi semiautomatiche, automatiche o da taglio; di discernere se e quando combinare modalità suicide con altre metodiche terroristiche; di scontrarsi para-militarmente con le forze di polizia; di rispondere rapidamente alla “chiamata alle armi”; di arricchire “l’albo d’oro jihadista” con ulteriori “eroici martiri”.
Senza costituire un precedente, in quanto negli Stati Uniti si erano registrati attentati di stampo radicale islamico sin dal 1980 ed il primo attentato contro le Torri Gemelle di New York era stato consumato nel 1993, significativi episodi terroristici della medesima matrice si sono verificati nel 2015 anche in quel Paese. Risaltano i seguenti.
• 3 maggio 2005. Garland (Texas). Elton Simpson e Azam Soofi – il primo nato negli USA e convertito all’Islam e il secondo nato negli USA da padre pachistano e madre americana, cresciuto come mussulmano e per sei anni residente in Pakistan – rimangono uccisi, dopo aver ferito un poliziotto con armi da fuoco, nel tentativo di assalire un centro dove stava per concludersi un concorso intitolato “Disegna il Profeta”. Ha fatto seguito una rivendicazione dell’attentato da parte dello Stato Islamico.
• 16 luglio 2015. Chattanooga (Tenessee). Muhammad Youssef Abdulazeez – nato in Kuwait, di origine palestinese, naturalizzato cittadino statunitense e con soggiorni in Giordania – uccide quattro fanti di marina ed un marinaio prima sparando dalla sua autovettura in movimento contro un centro di reclutamento delle forze armate e poi forzando, con lo stesso veicolo, l’ingresso di un centro della riserva della marina militare mentre continuava a sparare con armi lunghe ed arma corta prima di essere abbattuto dalla polizia che lo rincorreva.
• 2 dicembre 2015. San Bernardino (California). I coniugi Syed Farouk – nato negli USA da famiglia pachistana – e Tashfeen Malik – anch’essa di origine pachistana, conosciuta dal marito in Arabia Saudita e legata da giuramento allo Stato Islamico – uccidono con armi da fuoco 14 persone in un centro di assistenza sanitaria. Successivamente altre armi, munizionamento ed ordigni esplosivi vengono rinvenuti nel SUV da loro utilizzato per la fuga e nella loro abitazione.
Tanto in Europa quanto negli Stati Uniti si è trattato, comunque, di bersagli facilmente accessibili e proditoriamente vulnerabili. Per quanto riguarda gli attentati commessi a Parigi nel gennaio e novembre 2015 ed equiparati “a caldo” da alcuni commentatori all’11 settembre 2001, va rilevato che l’impegno progettuale/operativo e la consistenza dei danni dei rispettivi fatti delittuosi rendono tale equiparazione improponibile, se non in senso iperbolico.
Le allarmanti dimensioni e l’internazionalità/transnazionalità del “jihadismo” sono fortemente facilitate dalla sfruttabilità delle ben note problematiche e carenze di natura politica, economica e sociale che affliggono plurime aree geografiche.
A tale proposito, fra le zone e Paesi privi di sufficiente governabilità e benessere, la su citata relazione del Dipartimento di Stato statunitense include la Somalia, la regione trans-sahariana, il litorale sulawesi, l’Arcipelago Sulu, le Filippine meridionali, l’Egitto, l’Iraq, il Libano, la Libia, lo Yemen, l’Afghanistan, e il Pakistan, tutte realtà dove il radicalismo religioso e le aggregazioni terroristiche di stampo politico-religioso possono raccogliere ulteriori adepti e, simultaneamente, imporsi con aggressività e ferocia su estensioni territoriali.
La situazione è ulteriormente aggravata dal supporto proveniente da Stati sostenitori – la stessa relazione cita Iran, Siria e Sudan – e, ancor di più, da patroni apparentemente privati, nonché dalla vulnerabilità e sfruttamento cui sono soggette le ondate di profughi in fuga da aree in preda a conflitti armati o soprusi.
Questo complesso di fattori fatalmente alimenta aggregazioni consolidate, dinamiche e capaci di influenzare soggetti incolti, fanatici o disperati. Svolgono, infatti, tale ruolo al-Qaida, lo Stato Islamico ed eventuali loro emanazioni e imitatori.
E’ fin troppo ovvio che il terrorismo di qualsivoglia matrice, tanto a livello di stadio nello spettro della conflittualità non convenzionale quanto a livello di strumento ovunque presente, deve essere contrastato – così come ogni altra forma di criminalità – dai singoli Stati e dalle organizzazioni internazionali con la prevenzione e la repressione, sempre nel rispetto del diritto e dei principi umanitari, nonché con il contenimento dei danni.
Va, altresì, preso atto che cedimenti di qualsiasi natura, dalla tolleranza nei confronti di incitamenti delittuosi al pagamento di tributi o riscatti, non possono che rafforzare chi predica o pratica il terrorismo. Va parimenti tenuto presente che, nell’opera di contrasto, l’uso improprio del termine “guerra”, termine che riveste un significato giuridico e tecnico, implicitamente attribuisce ad attori criminali e non statali lo status di belligeranti legittimi, contrariamente a quanto previsto dai requisiti specificati nelle convenzioni de L’Aia del 1907 e di Ginevra del 1949.
Non va dimenticato, infine e soprattutto, che gli aggrediti non possono permettersi di rinunciare alla loro identità ed ai loro valori in nome di una mal concepita liberalità, la quale verrebbe interpretata unicamente come assoluta arrendevolezza.
[1] I dati qui citati sull’incidenza annuale del terrorismo e sul numero di aggregazioni terroristiche censite sono tratti o desunti da U.S. Department of State, Office of the Coordinator for Counterterrorism, Country Reports on Terrorism 2014, Washington, D.C., giugno 2015 ed edizioni annuali precedenti. Alla stesura di quest’articolo l’edizione più recente è la predetta.
[2] Vedi, ad esempio, Institute for Economics & Peace, Global Terrorism Index, Sidney, 2015.
[3] Europol Public Information, Changes in modus operandi of Islamic State terrorist attacks, EUROPOL, L’Aja, 18 gennaio 2016, p.3.
[4] James R. Clapper, Director of National Intelligence, Statement for Record – Worldwide Threat Assessment of the US Intelligence Community, Senate Armed Forces Committee, Washington, D.C., 9 febbraio 2016, p.4.
[5] Risoluzione citata in International Institute for Strategic Studies, The Military Balance 2016, Londra, p.6.
[6] Calzante caratterizzazione formulata dall’Ammiraglio Luigi Binelli Mantelli, ex Capo di Stato Maggiore della Difesa della Repubblica Italiana, citato in Clara Salpietro, “Difesa, sicurezza e interesse nazionale: I temi dibattuti al CASD per l’apertura dell’anno accademico”, worldwebnews.it, 9 novembre 2014.
[7] Clapper, op. cit., p.5
[8] Stime riportate in Danilo Talno, “Quei combattenti reclutati dall’Isis”, Corriere della Sera, 7 febbraio 2016.
[9] Ibid.
[10] Europol Public Information, op. cit., p. 4
[11] Citato in Guido Olimpio, “Non serve un ordine dall’alto E’ il piano dei ‘mille tagli’ per far sanguinare l’Occidente,” Corriere della Sera, 23 Dicembre 2014.
[12] Europol Public Information, op. cit., p.7.
[13] Fra i cittadini britannici si annoverano: Richard Reid, di origine giamaicana e fallito attentatore con carica di esplosivo celata in una scarpa sul volo Parigi-Miami del 22 dicembre 2001; Germaine Lindsay, coinvolto negli attentati di Londra del luglio 2005; Don Stewart-White e Brian Young, coinvolti nei progettati attentati agli aerei di linea diretti dal Regno Unito negli USA nell’agosto 2006; Nick Reilly, attentatore con ordigno rudimentale in un ristorante di Exeter nel maggio 2008; Trevor Brooks, condannato per raccolta di fondi e incitamento a compiere atti terroristici all’estero. Fra quelli francesi: Christophe Caze e Lionel Dumont, appartenenti nel 1996 al gruppo di Roubaix, aggregazione a cavallo tra criminalità comune e radicalismo islamico; Pierre Richard Robert, uno degli organizzatori degli attentati multipli commessi a Casablanca il 16 maggio 2003; David e Jerome Courtailler, il primo dei due fratelli condannato per reclutamento di volontari “jihadisti” da inviare in Afghanistan e il secondo condannato per pianificazione di attentati anti-USA in Olanda e Belgio; Maxime Hauchard, trasferitosi in Siria nel 2013 per partecipare all’esecuzione di ostaggi dello Stato Islamico. Fra quelli belgi: Muriel Degauque. fattasi esplodere a Baghdad il 9 novembre 2005. Fra quelli tedeschi: Steven Smyrek e Christian Ganczarski, rispettivamente collegati ad attentati in Medio Oriente e Tunisia; Fritz Gelowicz e Daniel Schneider, arrestati nel settembre 2007 sotto accusa di progettati attentati contro obiettivi tedeschi e statunitensi in Germania; Eric Breininger, apparso su minacciosi video “jihadisti” nei confronti della Germania. Fra quelli italiani: Domenico Quaranta, autore di quattro attentati di lieve entità ad Agrigento e Milano tra novembre del 2001 e maggio del 2002; Giuliano Delnevo, “combattente” defunto in Siria nel 2013; Maria Giulia Sergio, trasferitasi nel 2014 in Siria per abbracciare fattivamente la causa dello Stato Islamico.
[14] Clapper, op. cit., p.4.
[15] I dati, eventualmente soggetti ad aggiornamenti, riguardanti questo eccidio sono tratti da vari articoli e schede apparsi su Corriere della Sera.
Affari Esteri, n. 177, estate 2016
Il termine “radicalizzazione”, al quale è stato attribuito il significato di ”evoluzione individuale verso l’adozione di determinate idee e, talvolta, verso l’impiego della violenza e delle tattiche terroristiche per raggiungere fini politici”, è entrato in auge solo dopo gli attentati di stampo jihadista, ovvero radicale islamico, commessi a Londra il 7 e 21 luglio 2005 ai danni di affollati mezzi di trasporto pubblico urbano.[1]
Tuttavia, sempre con lo scopo di radicalizzare, agitatori sovversivi conducevano propaganda, indottrinamento ed, eventualmente, reclutamento in numerosi ambienti già dagli Anni Sessanta del secolo scorso, periodo in cui nacque e si sviluppò il terrorismo contemporaneo riconducibile a plurime matrici.
Per gli estremisti protesi verso fini essenzialmente politici, ossia di sinistra e di destra, i principali bacini di sfruttamento includevano e tuttora includono – seppure con differenziabile impegno ed esito – studenti universitari e allievi delle scuole medie superiori; attivisti sindacali; operai; disoccupati, sottoccupati e lavoratori precari; frange extraparlamentari di protesta; e aderenti a particolari correnti partitiche. A loro volta, per gli estremisti protesi verso fini nazional-separatisti risultano tutt’oggi sfruttabili aree di concentramento etnico-culturale a livello regionale.
A partire dall’ultimo ventennio del secolo scorso, con il consolidarsi del terrorismo proteso verso fini specificamente politico-religiosi, in prevalenza di matrice jihadista, hanno acquisito rilevanza per la radicalizzazione e il reclutamento anche i luoghi di culto, il focolare domestico, le comunità di immigrati e il settore carcerario.[2]
Infatti, numerosi luoghi di culto fungono da megafono per imam, attivisti e istigatori radicali islamici. Va ricordato, a titolo di esempio, il significativo caso britannico che include personaggi quali Abdul Huhid della moschea londinese di Regent’s Park; Omar Bakri, leader del gruppo radicale al Muhajiroun, il quale fra l’altro aveva preannunziato un attentato islamista contro la capitale nell’imminenza dei predetti fatti delittuosi del luglio 2005; Imram Wahe, rappresentante nel Regno Unito di Hizb ut Tahrir (Partito della Liberazione Islamica), un movimento con seguaci, oltre che in Europa e in Medio Oriente, in alcune repubbliche ex sovietiche dell’Asia centrale; Abu Qatada, guida spirituale dell’integralismo islamico in Europa ed esule dal 1993 nel Regno Unito, dopo essere stato processato e condannato in Giordania; e l’espatriato egiziano Abu Hamza al Masri, già militante in Afghanistan dove rimase menomato.
Sotto forma di rete informale, sono direttamente o indirettamente collegati a luoghi di culto – sia riconosciuti sia di altra natura – una serie di associazioni ed esercizi commerciali, fra cui risaltano centri culturali, gruppi giovanili, librerie, macellerie, ristoranti, negozi di abbigliamento e Internet caffè.
Si sono parimenti dimostrati sfruttabili i legami di famiglia, grazie alla fiducia ed impegno insiti in determinati focolari domestici.[3] Lo attestano, ad esempio, questi noti fatti di sangue.
• L’attentato del 15 aprile 2013 ad opera dei fratelli Tsarnaev in occasione della maratona di Boston.
• L’attentato del 7 gennaio 2015 ai danni della rivista satirica parigina Charlie Hebdo commesso dai fratelli Kouachi.
• Gli attentati coordinati perpetrati a Parigi il 13 novembre 2015 in cui hanno partecipato i fratelli Abdeslam.
• L’attentato consumato a San Bernardino in California il 2 dicembre 2015 dai coniugi Syed Aizwan Farook e Tashfeen Malik.
• Gli attentati compiuti in contemporanea dai fratelli el Bakraoui a Bruxelles il 22 marzo 2016.
Altro terreno fertile è costituito dalle comunità di immigrati, particolarmente se non integrati nelle nuove terre di residenza. Non di rado vi si stabiliscono immigrati o loro discendenti che, quantomeno a livello psicologico, considerano aliena o addirittura ostile la nazione in cui hanno trovato asilo fuggendo da crisi nel proprio Paese di origine e, pertanto, rifiutano la cultura, i valori, le consuetudini e l’ordinamento giuridico del Paese ospitante. L’infiltrazione sovversiva allo scopo di radicalizzare membri di questi insediamenti migratori disgraziatamente disagiati e non sufficientemente acculturati è suscettibile di consolidamento ed espansione.
A tale proposito sono calzanti i fattori sottostanti e strumentali legati ai disordini che, partendo dalla banlieue parigina il 27 ottobre 2005 (giorno in cui due adolescenti maghrebini nascostisi in una centralina elettrica per sfuggire a un controllo di polizia sono tragicamente deceduti elettrificati), si estesero – seppure in misura minore – alle periferie e al centro di altre metropoli francesi e, sia per imitazione sia per istigazione, a Bruxelles, Liegi, Charleroi, Lovanio, Rotterdam, Atene e Salonicco.
Altrettanto istruttivo è il caso di Molenbeek, una suddivisione amministrativa di Bruxelles densamente popolata da immigrati provenienti dal Nord Africa ed altri Paesi arabi, dove – fra l’altro – sono stati almeno in parte pianificati attentati commessi a Parigi nel luglio del 1995 e nel gennaio e novembre del 2015 ed a Bruxelles nel marzo 2016.
Crescente è, inoltre, la preoccupazione riguardante la radicalizzazione nel settore carcerario, in cui si verificano ripetutamente non solo casi di effettiva conversione religiosa, ma anche di conversione al radicalismo politico-religioso.[4] Nel secondo caso, la religione viene percepita e praticata non come fede, bensì come ideologia.
Poiché l’ambiente carcerario è notoriamente destabilizzante e produttore di solitudine, incertezza, paura e ira, questa condizione facilita la conversione quale rifugio spirituale in qualche forma di credenza e pratica religiosa ed offre, in aggiunta, un terreno fertile per lo sfruttamento di detenuti da parte di agitatori sovversivi protesi verso mire politico-religiose.
La motivazione dei convertiti è attribuibile a fattori che agiscono singolarmente oppure in concerto fra loro. Risaltano il pragmatismo, che include tanto la ricerca di protezione contro pregiudizi, maltrattamenti e violenze, quanto il desiderio di ottenere benefici materiali e psicologici derivanti dall’inserimento in una comunità “scudo”; la brama di possedere un senso d’identità, missione, autostima, forza o superiorità; ed il risentimento razziale o religioso maturato nel tempo.
Per quanto riguarda l’attrazione esercitata negli istituti di pena dall’Islam – religione caratterizzata da semplicità dogmatica, comportamentale e rituale – e, altresì, dal jihadismo, si riscontra il passaggio dall’Islam religioso a quello radicale da parte di detenuti musulmani, nonché la conversione di non musulmani all’Islam quale fede oppure direttamente alla degenerata versione jihadista.
Il proselitismo jihadista abbraccia, da un lato, la predicazione condotta da imam a contratto o volontari e, dall’altro lato, il proselitismo svolto da detenuti carismatici con trascorsi terroristici, per così dire, “qualificanti”.
Per quanto riguarda l’operato della prima categoria di sobillatori, la loro “autorevolezza” è sovente presunta dai detenuti presi di mira. Detti imam, i quali godono di mobilità tra penitenziari e spesso di limitati controlli da parte delle autorità carcerarie, sfruttano l’ignoranza o impreparazione dei detenuti e sono in condizione di individuare e valutare quali di costoro sono ricettivi e vulnerabili.
L’operato della seconda categoria di sobillatori è facilitato dalla frequente carenza di imam istituzionali dediti a fini puramente religiosi ed è, talvolta, tollerato dalle autorità penitenziarie anche a fini di intermediazione con determinate categorie di detenuti.
L’attività sovversiva di queste due categorie di sobillatori è rafforzata dalla diffusione rapsodica, oppure sistematicamente coordinata, di pubblicazioni e video da parte di soggetti totalmente esterni alle carceri. Rilevante è il caso della fondazione saudita al-Haramain, mittente di testi religiosi corredati da traduzione con commenti interpretativi in senso radicale. Solo nell’apparenza di matrice religiosa, dette missive venivano inoltre subdolamente accompagnate da questionari intesi ad ottenere informazioni personali dagli stessi destinatari onde schedare per futura memoria potenziali proseliti inizialmente inconsapevoli dei sottostanti intenti sovversivi.
Ai rischi generati dalla radicalizzazione all’interno degli istituti penitenziari, talvolta accompagnata da disordini, sommosse e tentativi di evasione, si aggiungono attività dirette all’esterno. Sono riscontrabili la funzione ispiratrice/sostenitrice nei confronti delle aggregazioni terroristiche di provenienza degli attivisti in prigionia; l’emissione di proclami e decreti presentati abusivamente come giuridico-religiosi; la diffusione di interviste sovversive clandestinamente registrate; e, perfino, la progettazione di attentati da compiersi da militanti in procinto di essere dimessi dai luoghi di pena.
Le comunicazioni con elementi radicali all’esterno dell’ambiente carcerario avvengono sia con il compiacente ausilio di avvocati difensori, interpreti, parenti o personale penitenziario corrotto, sia per il tramite di strumenti quali la posta non controllata o inefficacemente controllata e cellulari illecitamente accessibili.
Fra i casi significativi ed esemplificativi di radicalizzazione jihadista avvenuta o accentuatasi nei penitenziari e seguita da attentati compiuti, progettati o tentati da ex detenuti, si annoverano quelli in cui emergono come protagonisti i seguenti personaggi di varia nazionalità e con differenziabili ruoli.
• Ayman al-Zawahiri, massimo esponente prima dell’aggregazione terroristica egiziana al-Jihad e poi di al-Qaida.
• Abu Mussab al-Zarqawi, defunto alto esponente di “al-Qaida in Iraq”, successivamente trasformatasi nel sedicente Stato Islamico.
• Abu Brack al-Baghdadi, il quale ha pretestuosamente assunto il titolo di Califfo Ibrahim a capo del sedicente Stato Islamico.
• Safe Brada, responsabile di attentati a Parigi nell’estate-autunno del 1995.
• Richard Reid, autore del fallito attentato del 22 dicembre 2001 sul volo Parigi-Miami.
• Jose Padilla, progettatore di incompiuti attentati con ordigni radiologici negli Stati Uniti.
• Domenico Quaranta, responsabile nel 2001-2002 di attentati ad Agrigento e Milano.
• Mohammed Bouyeri, assassino del cineasta Theo Van Gogh, asseritamente colpevole di blasfemia nei confronti dell’Islam, ad Amsterdam il 2 Novembre 2004.
• Mukhtar Said Ibrahim, uno dei responsabili dei su ricordati attentati di Londra nel luglio 2005.
• Kevin James, progettatore di attentati in California.
• Salah Abdeslam, partecipe degli attentati del 13 novembre 2015 a Parigi.
Ai suddetti bacini ripetutamente sfruttati e tutt’ora sfruttabili al fine della radicalizzazione, si è aggiunto nel secolo in corso l’ausilio mirato della information technology.
Ben nota, efficace ed inquietante è la capacità propagandistica e disinformativa del sedicente Stato Islamico, anche conosciuto come Stato Islamico di Iraq e Siria oppure sotto l’acronimo arabo Daesh. La perizia telematica di questo apparato pseudo-istituzionale jihadista si esprime in campagne mediatiche inclusive di video, social media e link con siti di reclutamento e, persino, indicazioni per acquisti online.
Sicuramente lo strumento telematico agevola l’indottrinamento politico-religioso e può facilitare, in determinati ambienti, consenso o sostegno a favore delle iniziative e dei fini jihadisti. Discusso, invece, è il grado di effettiva influenza dello strumento telematico sulla commissione di attentati direttamente da parte di destinatari non già convinti e predisposti. Ricerche ed analisi hanno sostenuto che, nonostante l’ausilio dell’Internet, continui a prevalere il contatto personale e diretto nella radicalizzazione e nel reclutamento.[5].
Nel contesto del terrorismo internazionale sono comunque multiple le tecniche impiegate per radicalizzare e reclutare. Già negli anni precedenti e immediatamente successivi agli attentati che colpirono New York e Washington l’11 settembre 2001, al-Qaida si avvaleva di quattro tecniche primarie – alle quali sono state rispettivamente attribuite denominazioni simboliche – qui appresso sinteticamente illustrate.[6]
• “Rete”. Analogamente al pescatore, l’agitatore sovversivo getta la metaforica rete in una direzione prescelta e raccoglie quanto possibile.
• “Imbuto”. L’agitatore sovversivo opera in fasi progressive per proselitizzare in modo sempre più intenso e oculato.
• “Infezione”. L’agitatore sovversivo infetta ideologicamente alcuni individui, i quali a loro volta contagiano altri.
• “Seme di cristallo”. Si tratta di una forma di auto-radicalizzazione/auto-reclutamento seguita da iniziative intese a coinvolgere altri.
Per contrastare efficacemente il fenomeno della radicalizzazione, a prescindere dalla natura della fonte politica o politico-religiosa da cui condotta, s’impone in primo luogo una dettagliata conoscenza delle dinamiche, tecniche, potenziali bersagli e risultati effettivi della radicalizzazione stessa nello spazio e nel tempo.
E’, parimenti, fondamentale l’impiego di uno sforzo sinergetico multidisciplinare. In quanto la radicalizzazione abbraccia aspetti sociologici, psicologici, culturali, linguistici, pedagogici e mediatici, è insufficiente il meritevole impegno delle forze dell’ordine. Debbono contribuire allo sforzo di prevenzione e rieducazione, nel vasto contesto di una progettazione ed esecuzione dettagliatamente coordinata, i cultori di tutte le discipline attinenti al contrasto di questo inquietante e delicato fenomeno.
[1] Vedi Daniel Koehler, Violent Radicalization Revisited: A Practice-Oriented Model, Center for Security Studies, Zurigo, 26 giugno 2015, p.1.
[2] L’incidenza della radicalizzazione jihadista e lo sviluppo delle relative metodiche sono oggetto di notevole attenzione da parte dei Paesi di cultura occidentale come si evince dalle ricerche ed analisi nel pubblico dominio. Vedi, ad esempio, Rachel Briggs – Jonathan Birdwell, “Radicalisation among Muslims in the UK”,Institute of Development Studies, University of Sussex, Brighton, Maggio 2009; National Security Criminal Investigations, Radicalization: A Guide for the Perplexed, Royal Canadian Mounted Police, Giugno 2009; Lorenzo Vidino, Jihadist Radicalization in Switzerland, Center for Security Studies, Zurigo, Novembre 2013; National Coordinator for Security and Counterterrorism, Global Jihadism: Analysis of the Phenomenon and Reflections on Radicalisation, Ministry of Security and Justice (Olanda), Dicembre 2014; Didier Bigo – Laurent Bonelli – Emmanuel-Pierre Guitet – Francesco Ragazzi, Preventing and Countering Youth Radicalisation in the EU, Directorate General for Internal Policies, European Parliament, Dicembre 2014.
[3] Secondo uno studio condotto dalla rivista New America su un campione di 474 “combattenti stranieri” provenienti da 25 Paesi occidentali, un terzo risultavano parenti, coniugi, affini o comunque fortemente legati ad elementi jihadisti. Studio citato in Mohammed M. Hafez, “The Ties That Bind: How Terrorists Exploit Family Bonds”, CTC Sentinel, West Point, New York, 19 febbraio 2016, p.1.
[4] Sebbene la radicalizzazione nelle carceri riguardi soprattutto la componente jihadista del terrorismo, già prima dell’emergere del radicalismo islamico contemporaneo si sono verificati – in tono comunque minore – casi di radicalizzazione afferenti aggregazioni di diversa matrice. Ne sono esempi il Symbionese Liberation Army (SLA) negli Stati Uniti e i Nuclei Armati Proletari (NAP) in Italia, entrambi appartenenti all’estrema sinistra rivoluzionaria ed entrambi fautori di sinergia tra i propri aderenti detenuti e quelli in libertà.
[5] Vedi Sam Mullins, “Foreign Fighters in Syria”, Per Concorcordiam., General C. Marshall Center for Security Studies, Settembre 2014. p.37 e J. Skidmore, Foreign Fighter Involvement in Syria, International Institute for Counter-Terrorism, Herzliya, Gennaio 2015. pp.13-15.
[6] Per maggiori dettagli vedi Scott Gerwehr – Sara Daly, Al-Qaida: Terrorist Selection and Recruitment, Rand Corporation , Santa Monica, California, ristampa tratta da Capitolo 5 di McGraww Hill Homeland Security Handbook, New York, 2006.