di Simone Zuccarelli, Direttore del Programma Transatlantico
Il riallineamento all’interno del Partito Repubblicano segnerà la politica statunitense nei prossimi anni. In politica estera ciò comporta alcune peculiarità, in parte manifestatesi nei primi quattro anni di Trump alla Casa Bianca, che sono in linea con i canoni classici del pensiero conservatore una volta tradotto in politica estera:
Nazionalismo. L’internazionalismo tipico dell’esperienza statunitense degli ultimi ottant’anni lascia definitivamente il posto all’America First, che non equivale a una postura isolazionista, intesa nel senso proprio del termine, ma a un nazionalismo che pone al primo posto gli interessi del Paese. Questo si tradurrà in una opposizione più o meno marcata a tutta una serie di organizzazioni e accordi internazionali, con l’obiettivo di liberarsi di parte dei vincoli che, nei decenni passati, gli Stati Uniti hanno accettato in quanto propedeutici alla loro visione liberal-internazionalista. Una visione alla base di quel World America Made delineato da Robert Kagan in un volume del 2013, oramai reliquia del passato. Non è dunque un caso che due dei primissimi atti della nuova Amministrazione siano stati il ritiro dagli Accordi di Parigi sul Clima e, ancora più rilevante, l’uscita dalla World Health Organization. L’enfasi sulla volontà di difendere il predominio degli Stati Uniti in tutti i principali settori, da quello economico a quello militare, sarà un altro tratto tipico dell’approccio America First. In quest’ultimo ambito, in particolare, le richieste dell’Amministrazione Trump agli alleati saranno pressanti. Di fronte a una America che punta a rilanciarsi nel mondo anche attraverso un rafforzamento militare in vista di un intensificarsi della competizione tra potenze, gli alleati europei non potranno più continuare semplicemente a giovarsi dell’ombrello di sicurezza statunitense come nelle decadi passate.
Realismo classico. Un’altra caratteristica dei prossimi quattro anni sarà il ritorno della logica di potenza e del realismo classico nell’approccio alla politica estera. A differenza che nel periodo bipolare, il volto degli Stati Uniti sarà decisamente più pragmatico, anche verso gli alleati. Questo perché gli schemi ideologici che hanno caratterizzato il sistema delle relazioni internazionali degli ultimi decenni stanno venendo meno. L’internazionalismo liberale, in altri termini, era anche una risposta ideologica al comunismo e quel tipo di configurazione del sistema internazionale richiedeva agli Stati Uniti una posizione proattiva. Oggi, con la multipolarizzazione del sistema, tale strategia è in difficoltà. Inoltre, l’ascesa del conservatorismo nel Partito Repubblicano ha determinato un approccio in politica estera volto a rifiutare sempre più gli assiomi alla base della visione liberal-internazionalista; aspetto, questo, che costituisce uno dei principali punti di rottura rispetto all’America reaganiana. Appena insediatasi, infatti, la nuova Amministrazione ha subito sospeso gli aiuti internazionali per novanta giorni, in attesa di valutazione in merito all’aderenza dei Paesi coinvolti agli interessi di Washington. Reagan, al contrario, incrementò il budget e la portata degli aiuti esteri statunitensi, proprio con l’idea di rafforzare la presenza e i valori americani nel mondo.
Protezionismo. L’abbandono dell’approccio liberal-internazionalista comporterà uno sganciamento almeno parziale dalla logica liberoscambista che ha guidato il Paese negli ultimi decenni. Per il conservatore il sacrificio della sua folk community in nome della globalizzazione e del libero commercio, anche quando usato a fini di politica estera, è raramente accettabile. Inoltre, gli esiti deleteri dell’adesione completa all’approccio pro-globalizzazione appaiono evidenti negli Stati Uniti – si veda, in particolare, la perdita della capacità manifatturiera, una volta fiore all’occhiello della potenza americana nel mondo – e, dunque, la spinta a invertire la tendenza è ancora più forte. Anche su questo fronte, significativa è stata la promessa di Trump, appena insediatosi, di introdurre dazi al 25% sulle merci provenienti da Canada e Messico, così come l’uso della minaccia di dure sanzioni sulla Colombia che aveva rifiutato di accettare il rimpatrio di suoi cittadini espulsi dagli Stati Uniti.
Ideologia. Infine, l’approccio realista sarà integrato da una visione ideologica degli affari internazionali. Non, dunque, il classico realismo da manuale, slegato dalla dimensione ideal-valoriale, ma un realismo di principi. In particolare, i principi sono quelli propri del pensiero conservatore declinato in chiave statunitense che si traducono, in politica estera, in una scarsa enfasi posta sulla promozione della liberal-democrazia nel mondo e, in conseguenza di ciò, una minore propensione nel valutare le azioni di alleati e avversari in base a una serie di principi propri dell’approccio liberal-internazionalista, quali il rispetto dei diritti umani, la natura dei regimi politici o delle relative libertà tutelate e così di seguito. Al contrario, Paesi che esprimono una visione del mondo più in linea con quella conservatrice saranno agevolati nella relazione con Washington.

La Dottrina Trump
Nonostante tale approccio si sia già manifestato nel corso dei primi quattro anni di Trump alla Casa Bianca esso non ha mai del tutto assunto la coerenza organica richiesta a una vera e propria dottrina di politica estera. Nel corso dei prossimi quattro anni è lecito attendersi un approccio alla realtà internazionale ben definito e coerente, capace di imprimere una profonda trasformazione della politica estera statunitense e, quindi, delle relazioni tra Washington e il resto del mondo.
Due temi principali continueranno ad animare il dibattito tra Stati Uniti ed Europa come nel corso della prima Amministrazione Trump – anche se probabilmente con una intensità prima mai raggiunta: commercio e burden sharing. Se scontri su queste due questioni si ripresentano con costanza fin dall’Amministrazione Eisenhower, le trasformazioni in corso nel sistema internazionale e negli Stati Uniti spingeranno probabilmente Trump ad affrontare con decisione i punti di divergenza con gli alleati europei.
Il fronte commerciale. Sul primo fronte, quello commerciale, è lecito attendersi una nuova tornata di tariffe qualora non si riesca a raggiungere un accordo in grado di permettere alle aziende statunitensi di esportare con maggiore facilità in Europa. Infatti, il disavanzo commerciale a sfavore di Washington è significativo e le rilevanti barriere non tariffarie poste dall’Unione Europea complicano la sua riduzione. Si pensi al settore dell’automotive – uno dei più esposti a possibili ritorsioni – dove le barriere normative sono molto più stringenti sul Vecchio Continente; lo stesso vale per il comparto agricolo. Bruxelles ha chiaramente il diritto di decidere come meglio gestire le sue relazioni commerciali e proteggere il proprio mercato interno e i consumatori; tuttavia, le scelte adottate potrebbero avere conseguenze non gradite. Al riguardo, va osservato che essendo gli europei esportatori netti, in caso di una guerra di dazi saranno questi ultimi a subirne maggiormente gli effetti negativi rispetto agli statunitensi – e lo stesso vale anche per diversi altri Stati, a partire dalla Cina. L’Italia, che è il secondo Paese europeo per volume di esportazioni verso gli Stati Uniti, si trova particolarmente esposta e dovrà sicuramente esercitare una certa pressione per cercare di evitare o quantomeno ridurre il più possibile eventuali penalizzazioni commerciali statunitensi.
Il burden sharing. Sul secondo fronte, il burden sharing è un tema sul quale Washington sollecita i Paesi del Vecchio Continente fin dalla presidenza Eisenhower. Donald Trump ha diverse volte intimidito gli europei – ventilando il ritiro di un’aliquota delle truppe statunitensi dislocate in Europa o mettendo in dubbio il proprio pieno sostegno secondo l’Articolo 5 del Trattato Nord Atlantico – per convincerli a contribuire maggiormente al mantenimento della sicurezza collettiva. Ottenuto un significativo incremento dei contributi alla difesa da parte degli alleati europei i toni di Trump verso l’Alleanza Atlantica sono decisamente migliorati. Tuttavia, il tema resta sul tavolo dato che diversi Paesi – tra cui l’Italia – ancora non hanno raggiunto la soglia minima del 2% del PIL in difesa come da accordi presi in occasione del Summit NATO del Galles nel 2014. Inoltre, Trump ha già comunicato come tale soglia sia insufficiente. L’Italia, in particolare, deve cercare di recuperare terreno, facendosi trovare pronta nel momento in cui da Washington verrà chiesto di illustrare i progressi fatti su questo fronte. La necessità di tali investimenti appare ineludibile nell’attuale scenario internazionale, gravato da minacce alla sicurezza di carattere globale, interconnesse e multi-dominio, ed è quantomai indispensabile per poter consentire a Roma di attuare una politica estera e di sicurezza adeguata nell’arena internazionale. Nonostante la nostra presenza attiva nelle organizzazioni internazionali, NATO inclusa, e la nostra capacità di ottemperare ai numerosi e crescenti impegni in termini di missioni, esercitazioni e dispiegamenti, infatti, non è più possibile investire nella difesa come se il mondo fosse rimasto agli anni Novanta. Inoltre, torna alla mente il famoso aforisma attribuito a Federico il Grande: «La diplomazia senza le armi è come la musica senza gli strumenti».

Ulteriori quattro questioni segneranno le relazioni tra le due sponde dell’Atlantico nei prossimi anni: risoluzione della guerra in Ucraina, sfida cinese, politica da adottare verso l’area MENA e approccio sul fronte tecnologico.
La guerra in Ucraina. La guerra in Ucraina costituisce uno dei primi dossier sui quali la nuova Amministrazione si concentrerà. Dopo tre anni di conflitto, gli sviluppi sul terreno e il progressivo esaurimento dei due contendenti rendono oggi questo scenario realmente perseguibile. L’Italia, dopo aver sostenuto diplomaticamente e materialmente lo sforzo bellico ucraino, negli ultimi mesi ha sempre più indicato la necessità di una via diplomatica per la risoluzione del conflitto. La telefonata del Cancelliere tedesco Olaf Scholz a Vladimir Putin del novembre 2024 ha mostrato come tale approccio stia sempre più maturando anche in altre capitali europee e il ritorno di Trump – che ha già segnalato la volontà di parlare con il Presidente russo al più presto – alla Casa Bianca potrebbe dare ulteriore accelerazione a tale processo. Il Presidente statunitense si è già mostrato deciso nei confronti di Mosca, chiedendo a Putin di fermare il conflitto e presentarsi al tavolo del negoziato sia perché nell’interesse russo sia per evitare un nuovo giro di sanzioni.
La sfida cinese. Sul versante del Pacifico cresceranno le pressioni per un ruolo più proattivo del Vecchio Continente a supporto di Washington. Come segnalato dal nuovo Segretario di Stato Marco Rubio, infatti, «if we don’t change course, we are going to live in the world where much of what matters to us on a daily basis from our security to our health will be dependent on whether the Chinese allow us to have it or no». Su queste basi la nuova Amministrazione costruirà la sua relazione con Pechino. Tuttavia, i Paesi europei appaiono tuttora divisi sul miglior modo di contemperare da una parte alle richieste provenienti dagli Stati Uniti e ai rischi di sicurezza legati alle ambizioni cinesi e, dall’altra, alle necessità economiche che spingono a mantenere solide relazioni commerciali con Pechino. Per una Europa – inclusi i suoi Paesi principali – che oramai coltiva, o può permettersi di coltivare, prettamente ambizioni regionali, quanto accade nel Mar Cinese appare distante. Anche per l’Italia il dilemma è significativo. Nonostante l’uscita formale dal Memorandum sulla Via della Seta, l’Italia ha più volte manifestato l’intenzione di mantenere un partenariato con la Cina, secondo un approccio principalmente volto al de-risking piuttosto che al decoupling. Questo, non solo per i legami economici tra i due Paesi, ma anche perché Pechino è vista come partner nell’ambito della transizione verde, soprattutto visto il dominio cinese della supply chain legata alle cosiddette energie pulite: anche in questo caso, all’Italia sarà richiesto un delicato gioco di bilanciamento tra l’appartenenza allo schieramento atlantico e la necessità, forzata dalla volontà dell’Unione Europea di accelerare sulla transizione verde, di mantenere rapporti discreti con Pechino.
L’area MENA. L’Amministrazione appena insediatasi cambierà l’approccio statunitense con riguardo all’area MENA. I repubblicani, con il nuovo Segretario di Stato in testa, sono sempre stati particolarmente ostili verso il regime teocratico della Repubblica Islamica dell’Iran e i recenti progressi fatti da Teheran nell’arricchimento dell’uranio saranno sicuramente tra le priorità dell’Amministrazione Trump. Inoltre, tornerà a rafforzarsi la relazione con i Paesi del Golfo, in particolare l’Arabia Saudita, con cui già nei primi quattro anni di Trump si era costruito un solido rapporto. Uno degli obiettivi principali sarà il recupero del processo che ha portato alla firma degli Accordi di Abramo e, in particolare, Trump proverà a ottenere la conclusione di un accordo tra Arabia Saudita e Israele. Sullo Stato Ebraico la posizione dei repubblicani rimane di assoluto supporto. L’Italia segue con attenzione gli sviluppi nell’area, essenziale per i suoi interessi nel Mediterraneo allargato e per l’India-Middle East-Europe Economic Corridor (IMEC). Questo progetto, sostenuto da India, Stati Uniti, UE, Francia, Germania, Italia, Arabia Saudita ed Emirati Arabi Uniti, mira a creare infrastrutture ferroviarie, digitali ed energetiche, includendo un gasdotto per l’idrogeno pulito, collegando l’India all’Europa. Oltre l’aspetto infrastrutturale, l’IMEC ridefinisce la geopolitica globale, consolidando il concetto di “Indo-Mediterraneo”, ponte tra l’Indo-Pacifico e l’Euro-Atlantico. In questo scenario, l’Italia può giocare un ruolo chiave, rafforzando la sua proiezione negli affari globali. Più in particolare, nei prossimi quattro anni l’asse sul quale sarà più conveniente spendere energie – anche in ottica futura – è quello Gerusalemme-Riyadh-Abu Dhabi, dove si concentrano alta tecnologia, capitali e risorse energetiche, oltre allo sguardo benevolo di Washington. Il viaggio del Primo Ministro Meloni in Arabia Saudita va nella giusta direzione.
La dimensione tecnologica. Infine, peculiare rilevanza assumerà la dimensione tecnologica. Già da diversi anni i colossi americani dell’high tech si trovano a dover fronteggiare un’Unione Europea interessata a regolare strettamente il loro operato. Nell’ultimo periodo ciò è risultato vero soprattutto per Elon Musk, messo sotto procedura di infrazione dalla Commissione Europea per possibili violazione del Digital Services Act (DSA). L’UE ha richiesto in particolare i documenti interni riguardanti gli algoritmi di X. Inoltre, diversi esponenti politici – sia europei che nazionali – hanno duramente attaccato Musk per quelle che considerano ingerenze negli affari del Vecchio Continente. Anche il sistema Starlink è finito sotto lo scrutinio della burocrazia europea. Oltre a Musk, l’UE sta cercando di limitare tutto il comparto delle high tech statunitensi, anche se Google, ad esempio, ha già preso le distanze da alcune richieste europee, come l’aggiunta di fact checking tra le sue pratiche di moderazione. Con lo spostamento delle grandi aziende della Silicon Valley verso Trump, tuttavia, aumenta il rischio di uno scontro aperto tra Stati Uniti e Unione Europea anche su questo tema, che andrebbe ad aggiungersi agli altri contenziosi aperti rendendo difficile l’appianamento delle divergenze. Per l’Italia, come sulle altre questioni evidenziate, sarà complesso trovare il giusto equilibrio tra volontà e necessità di preservare gli ottimi rapporti con la nuova Amministrazione e i giganti del web e le richieste provenienti da Bruxelles. In particolare, l’Italia è ben posizionata per interloquire soprattutto con Elon Musk, con cui si è già discusso a livello preliminare di un possibile accordo con SpaceX per l’utilizzo di Starlink, che darebbe al nostro Paese un sistema satellitare affidabile e a costi decisamente ridotti rispetto alla soluzione europea Iris2, tuttora in fase di sviluppo. In generale, come è possibile osservare nel grafico sottostante, nel settore dell’alta tecnologia le aziende americane dominano, occupando i primi sette posti per capitalizzazione a livello mondiale. È dunque opportuno avere un approccio dialogante se l’obiettivo è quello di non rimanere attardati nel settore chiave del futuro.

Sfide, opportunità e il ritorno della competizione tra potenze
In conclusione, per l’Italia – ma anche per l’Europa – si aprono quattro anni di sfide e opportunità. La nuova Amministrazione Trump riprodurrà quanto già visto nel corso della prima ma elevato al cubo, sia per i motivi interni già esaminati – cambiamenti nella destra americana e precedente esperienza di governo sopra tutti – ma anche per ragioni legate alla trasformazione in corso nell’arena internazionale. Gli ultimi anni, infatti, hanno segnato il ritorno della competizione tra potenze e gli Stati Uniti si troveranno sempre più sfidati nella loro posizione – primi tra tutti, da Cina e Russia. Questo li forzerà da una parte a sollecitare gli alleati a un maggiore contributo al mantenimento della sicurezza collettiva e, dall’altra, a presentare un profilo più pragmatico e volto alla salvaguardia dei propri interessi nazionali, innanzitutto di sicurezza. In questo senso vanno considerate le dichiarazioni di Trump sulla volontà di acquisire la Groenlandia, che hanno sorpreso i leader europei. La competizione nell’Artico sarà una delle sfide del futuro e per Washington non è pensabile non porre l’attenzione su un territorio che acquisirà sempre più rilevanza strategica ed è già oggetto dell’attenzione teorica e pratica di Pechino.
In sintesi, nei prossimi anni gli alleati verranno valutati sempre più in base alla loro capacità di sostenere gli sforzi statunitensi nel mantenimento della sicurezza dell’Occidente. Ciò aprirà spazi d’azione significativi per tutti i Paesi che sapranno coniugare bene la maggior libertà offerta da uno scenario multipolare e l’utilità specifica che dimostreranno di avere nel disegno globale statunitense. Insieme alle sfide, dunque, si aprono una serie di opportunità che, se sfruttate, potrebbero garantire ad alcuni Paesi europei di trarre giovamento dai prossimi quattro anni. Il Governo Meloni, in particolare, data la sua stabilità nel contesto europeo e considerata la sua vicinanza politico-ideologica all’Amministrazione statunitense, può assumere un ruolo importante di mediazione fra le due sponde dell’Atlantico e non solo. Ciò richiede una visione ambiziosa e proattiva, sorretta da adeguate capacità anche nel settore difesa, volta a dare al Paese una politica estera e di sicurezza in linea con il suo peso specifico, con particolare attenzione al Mediterraneo allargato. In questo modo l’Italia potrà riuscire a trasformare le sfide dei prossimi quattro anni in opportunità e aumentare così la sua capacità di incidere nell’arena internazionale a difesa dei suoi interessi nazionali.